Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, di Remo Rapino, Minimum Fax, Roma, 2020, vincitore del Premio Campiello per il 2020. Una lettura del libro che parte dal luogo dove inizia e si conclude la storia narrata.
Questo bellissimo libro, che si legge con vero piacere, ha il suo sfondo di partenza e di arrivo in un luogo che non è mai menzionato ma esiste nella realtà, Lanciano, in Abruzzo, il cui genius loci è costituito da quel sottile impasto di ironia e fatalismo che sottende il racconto della vita del protagonista. Un’ironia sicuramente favorita dalle simpatiche inflessioni del dialetto locale, che risuonano nella stessa parlata di “Cocciamatte”. Inseparabile dall’ironia, nello “spirito del popolo” lancianese, appare anche quel disincanto che inevitabilmente si collega al fatalismo. Un fatalismo che tuttavia convive con pulsioni tutt’altro che “ascetiche”, che si manifestano anche in abitudini edonistiche e “gaudenti” che fanno, tra l’altro, di Lanciano una “Mecca” dei buongustai abruzzesi, con i suoi rinomati ristoranti e trattorie. Sicuramente Liborio non avrebbe potuto permettersi quei templi della gastronomia. Eppure, anche lui appare visibilmente soddisfatto quando si appresta a consumare il suo semplice panino con la mortadella, innaffiato dallo “sciampagnino” (o “quarto con la gazzosa”). L’attenzione per la buona tavola, in questa città, si accompagna a quello per le bellezze artistiche e musicali. Ne è testimonianza, nel più generale contesto della bellezza dei vicoli, delle piazze e dei monumenti del centro storico, nei quali si snodano l’infanzia e l’adolescenza di Liborio, l’attività del Teatro “Fenaroli”, dedicata in particolare al melodramma, che proprio negli anni Trenta aveva conosciuto un’intensa ripresa. Non a caso, il ragazzo si rivela un discreto conoscitore delle principali arie operistiche, da lui apprese attraverso la banda, “istituzione” onnipresente, soprattutto nelle feste del settembre frentano. Ma Lanciano è passata alla storia anche perché capace di meritarsi la Medaglia d’Oro al Valor Militare, per l’eroica rivolta del 5-6 ottobre 1943 contro l’occupazione tedesca. Episodio che, accanto alle Quattro Giornate di Napoli, costituisce uno dei pochi episodi della Resistenza nell’Italia centro-meridionale. Le pagine che il libro dedica a detto episodio sono tra le più commoventi, grazie soprattutto al ritratto di quei coraggiosi ragazzi che, alternando il proprio dialetto (“jamme, jamme, guagliò”) ai neologismi d’oltreatlantico (“occhèi, occhèi”), sacrificarono la propria vita per la libertà. A partire da quel Trentino La Barba che i tedeschi accecarono barbaramente prima di ammazzarlo.
Passando a un’analisi più specifica del libro, e conoscendo l’autore, Remo Rapino, innanzitutto come compagno di studi in gioventù e di collega professore di Filosofia, non posso liberarmi del sospetto che egli abbia voluto intravedere nel protagonista una sorta di archetipo del (vero) filosofo. “Ruspante” quanto si vuole, ma pur sempre filosofo. Per almeno due buoni motivi. Il primo è forse più evidente: Liborio è un cocciamatte. E la follia, si sa, nella Grecia arcaica, accanto al sogno e all’ebbrezza, costituiva la condizione privilegiata per l’accesso alle verità più profonde: quelle che si nascondono dietro il diaframma della razionalità, che tende a occultarne (per usare un’espressione cara a Nietzsche) il carattere “abissale”.
Ma Liborio, oltre alla presunta follia, possiede anche gli altri due requisiti. È indubbiamente un sognatore, come dimostra il mirabile racconto dell’esperienza onirica finale, quando, davanti ai suoi occhi incantati, in un’immaginaria festa di compleanno, sfilano tutti i personaggi che hanno costellato la sua lunga vita: dalla madre al maestro Cianfarra Romeo, che gli ha regalato il libro Cuore; alla sua vecchia fiamma Giordani Teresa, che gli ha preferito lo “stoffaro” Maccarone; dal compagno Boschetti, il “fiommista” che ha perso una mano sul lavoro alla Ducati di Bologna; al dottor Mattolini Alvise, figura inequivocabilmente “basagliana”, che ha conquistato la sua fiducia all’Ospedale Psichiatrico di Imola. È interessante notare come, a partire da quelli del protagonista, i cognomi precedano sempre i nomi, forse per assecondare un vezzo diffuso nell’Italia centro-meridionale, facilmente riscontrabile, in particolare, nei verbali dei Carabinieri. Ma anche l’ebbrezza è un’esperienza alla quale raramente Liborio si sottrae, nelle cantine di Lanciano come in quelle di Milano, Bagnacavallo e Bologna. Spesso in una totale solitudine, che sollecita ancora di più la sua propensione alla “speculazione”, ancorché ingenua e istintiva.
Di più. Se è vero che Platone, nel Simposio, identifica il filosofo con l’amante, chi più di Liborio può ritenersi tale? Nelle sue numerose peregrinazioni, dal fallito approccio con Giordani Teresa ai suoi frequenti rapporti con le “donne di vita”, al tenero rapporto che intrattiene con l’altra Teresa, conosciuta in ospedale (troncato crudelmente dal suicidio della ragazza), fino al senile flirt con la Sordicchia, la continua ricerca dell’amore (mai realmente posseduto) è una costante nella vita del cocciamatte, che lo apparenta un po’ all’Eros platonico. Per non parlare della grande predisposizione che Liborio, come già detto, ostenta nei confronti della musica. In particolare quella della banda. Quest’ultima sembra rivestire, nel libro di Rapino, il ruolo del circo nei film di Fellini. Simbolo per eccellenza della Festa, essa occupa uno degli spazi topici della vita della cittadina frentana. E non è un caso che, nella lingua greca, il concetto di festa (legato alla contemplazione religiosa) sia strettamente associato al termine theorìa. Liborio è senz’altro un “contemplativo”, quanto di più lontano si possa immaginare dalla “razionalità della tecnica” e dalla “ragione strumentale”. Non è difficile immaginare che la musica (quella che Schopenhauer definiva una “metafisica in suoni”) lo aiuti non poco a sopportare le numerose tribolazioni della sua esistenza. Che tipo di “filosofo” è Liborio? Sicuramente, a suo modo, è un determinista. Troppa influenza ha, sugli sviluppi della sua esistenza, quell’insieme di “segni neri”, quella sfortuna che funesta ogni tappa del suo lungo percorso di vita. Ma, pur non essendo il Principe descritto da Machiavelli, Liborio cerca sempre di opporsi disperatamente a quella (s)fortuna, attivando le proprie “virtù”. Che sono molte, e risultano abbastanza evidenti nel racconto, se è vero che, per quanto cocciamatte, senza arte né parte, riesce a farsi apprezzare (e anche voler bene) dovunque la sorte lo conduca. Dall’esperienza di “ragazzo spazzola” presso la barberia lancianese al lavoro operaio alla Borletti, alla Santa Rosa e alla Ducati.
Tra i pregi del libro, spicca, inoltre l’ampio “respiro storico” che lo caratterizza. Il primo esempio che mi è venuto in mente, a mano a mano che avanzavo nella lettura, è stato il bel film di Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù (2003). Anche qui, per due buoni motivi. Il primo consiste nell’efficace affresco di interi decenni della storia del nostro Paese (la macro-storia), che scorrono attorno alla vicenda del protagonista (la micro-storia). Con la differenza che, nel caso del libro di Rapino, l’arco di tempo è ben più lungo di quello raccontato nel film di Giordana. Se quest’ultimo, infatti, prendeva le mosse dall’alluvione di Firenze del 1966, il racconto della vita di Liborio si snoda dalla sua nascita (1926) fino al 2010. Quanto basta per illustrarci uno straordinario “spaccato” di vita nazionale e locale, con gustosi e pittoreschi quadretti, nei quali vengono messi ironicamente alla berlina personaggi significativi delle varie epoche (particolarmente esilaranti le descrizioni dei vari “tromboni” locali e delle loro consorti nelle manifestazioni ufficiali che si celebravano, durante il ventennio, sul balcone della Casa di Conversazione, che ancora oggi domina la Piazza del Plebiscito). Scorrono nitidamente, dunque, davanti ai nostri occhi, le immagini dell’Italia fascista e della Resistenza, delle elezioni del 1948, degli anni del centrismo, delle lotte operaie, del Sessantotto, dell’ “autunno caldo”, fino alla caduta del comunismo e ai nostri giorni. E Liborio vive con intensa partecipazione emotiva, tutti quei momenti. Mai in maniera “neutrale”, ma sempre schierandosi da quella che l’autore sembra, di volta in volta, individuare nella “parte giusta”, ancorché, per lo più, perdente (il cosiddetto “fiommismo”). Come non manca di rivelare il sarcastico personaggio che spesso apostrofa Liborio con un cinico «Libò, pure questa volta hai perso». Nonostante la radicalità delle sue simpatie politiche (già presenti, sembra di capire, nel DNA del nonno Peppe, “socialista, però di Nenni”), Liborio è un sincero pacifista. Il suo unico gesto di violenza (che gli costerà qualche giorno di carcere, e poi l’ospedale psichiatrico) è dettato da una sacrosanta ribellione nei confronti di un ottuso e cinico capo-reparto (quello che allora si sarebbe definito un “servo dei padroni”). Il secondo aspetto, che accomuna il racconto al film di Giordana, è l’ampio spazio dedicato proprio alla vicenda psichiatrica. In entrambi si staglia, sia pure in assenza di riferimenti diretti, la figura di Basaglia e della riforma da lui operata, in pieno Sessantotto, all’insegna dello slogan “matti da slegare”. L’intera esperienza di Liborio all’ospedale di Imola, dominata dal suddetto bravo e “umano” dottore Mattolini Alvise, costituisce un indubbio omaggio a quella riforma, che può senz’altro essere considerata uno dei lasciti migliori e più duraturi della stagione sessantottina.
Qualche considerazione merita, infine, il particolare, creativo, linguaggio con il quale Liborio si esprime. Un linguaggio che sintetizza in maniera fantasiosa termini ed espressioni delle diverse regioni italiane, dal piemontese “balengo” al siciliano “truscia” al lancianese “fregnaria”, che proietta il personaggio in una dimensione “universale”, facendone una sorta di simbolo della fratellanza e dell’apertura all’ “altro” e al “diverso”. Un messaggio, perfettamente coerente con il percorso politico-culturale dell’autore. Un messaggio di cui oggi, in particolare, si sente un disperato bisogno.