di ROBERTO LEOMBRONI
1977. Quarant’anni fa. In Italia nasceva, a nove anni dal ’68, un nuovo movimento di contestazione giovanile. Si potrebbe pensare a un mero revivaldelle gesta dei “fratelli maggiori”. In realtà le distanze erano abissali. Alla metà degli anni ’70 si era registrata in Italia una grande avanzata democratica. Conquiste sindacali. Statuto dei Lavoratori. Voto ai diciottenni. Leggi sul divorzio e sull’aborto. Nuovo diritto di famiglia. Ciononostante sembrava mancare al nuovo decennio quella sorta di “afflato romantico” che aveva caratterizzato la seconda metà del precedente. Mancava soprattutto il respiro cosmopolita che aveva alimentato in tutto il mondo la contestazione sessantottina. E in Italia il clima si faceva sempre più cupo, per la convergente escalation del terrorismo “nero” e di quello “rosso”.
Le elezioni politiche del 1976 avevano registrato una forte avanzata del PCI e una sostanziale tenuta della DC. Il che aveva accelerato la maturazione di condizioni favorevoli alla formazione di una nuova maggioranza che coinvolgesse anche i comunisti. Con grande delusione e rancore in una grossa fetta dell’opinione pubblica di sinistra, che aveva sperato nel “sorpasso” elettorale e in una radicale inversione di tendenza nella politica italiana. Intanto aumentava la disoccupazione giovanile, in contrasto con la crescente scolarizzazione di massa. Nuovi fermenti culturali ed esistenziali modificavano ulteriormente il comportamento e la mentalità delle masse giovanili. Tra essi acquistava un’importanza particolare la diffusione dei “centri sociali” e la proliferazione delle “radio libere”. Bastava guardarsi attorno per capire quanto il clima fosse cambiato rispetto alle speranze di palingenesi planetaria che avevano animato il ’68 a livello globale. La nuova atmosfera era ben delineata nell’intero panorama culturale, cinematografico, musicale, di quei mesi. In Ecce Bombo Nanni Moretti descriveva con rara efficacia la solitudine, la desolazione e lo smarrimento ideologico ed esistenziale di un’intera generazione. Che non vedeva all’orizzonte alternative accettabili alla propria condizione. Più o meno contemporaneamente, il clima di delusione e sfiducia ben si rispecchiava nella canzone Incubo numero zero, inserita nell’album Disoccupate le strade dai sogni, del cantautore bolognese Claudio Lolli. Nel cui titolo appariva, in maniera netta, l’inversione di tendenza rispetto allo slogan dell’ “immaginazione al potere” che aveva trionfato nel ‘68. In maniera più ironica e meno sofferta, il cantautore romano Stefano Rosso portava al successo Una storia disonesta (“Che bello/ Due amici, una chitarra e uno spinello…”), divertito ritratto del fricchettone post-sessantottino. Una canzoncina che aveva il merito di richiamare l’attenzione sulla svolta che il fenomeno del consumo di hashish e marijuana stava conoscendo in questi anni rispetto al decennio precedente. Lo “spinello” aveva perso ormai la carica trasgressiva e contestatrice che aveva connotato il movimento dei “figli dei fiori”, per assumere il volto di una pratica quotidiana delle nuove generazioni. Assolutamente sganciata da ogni prospettiva di cambiamento sociale, e rapidamente assurta ad eloquente immagine della sfiducia nella politica e del vuoto esistenziale che avanzava. Passeranno pochi mesi e dagli Stati Uniti arriverà La febbre del sabato sera, che, grazie all’esuberante interpretazione dell’attore John Travolta, segnerà il trionfo della disco music, la crisi del “rock progressivo”, che aveva accompagnato le speranze “rivoluzionarie” del decennio, e la definitiva spinta al riflusso nel privato.
Il nuovo movimento si presentava, di conseguenza, con caratteristiche ben diverse rispetto a quello del ’68. Da una parte il tasso di violenza tendeva a crescere, con la presenza sempre più diffusa di armi da fuoco da parte delle frange estreme del gruppo dell’Autonomia Operaia. I cui militanti sfilavano in corteo con le tre dita alzate a mimare il simbolo della famigerata P38. Altrettanto violenta fu la reazione del “sistema”. Francesco Lorusso e Giorgiana Masi vengono ancora ricordati come simbolo delle tante vittime degli “anni di piombo”, che lasciarono il loro corpo sull’asfalto delle grandi città. Il nuovo movimento si nutriva di un estremismo radicale e spontaneo, che individuava il nemico da combattere prevalentemente nel PCI e nei sindacati. Ne fu eloquente testimonianza l’assalto sferrato al comizio del segretario della CGIL Luciano Lama all’Università di Roma, il 17 febbraio del 1977. Come pure il convegno “contro la repressione”, indetto a Bologna, nello stesso anno, in polemica con l’amministrazione social-comunista di quella città. Con la benedizione di ventotto intellettuali francesi, che, nel luglio di quell’anno, avevano firmato un Manifesto contro la repressione. Il nuovo movimento presentava tuttavia diverse anime. In particolare in alcune frange, come quella degli “indiani metropolitani”, esso tendeva a presentarsi con i colori della fantasia e della creatività. Che trionfavano negli happening politico-musicali e in alcune radio libere, come Radio Alice a Bologna e Radio Popolare a Milano.
Ma soprattutto quel movimento esprimeva un’esigenza perfettamente in linea con i processi innescati dalla “terza rivoluzione industriale”. Ovvero dall’incipiente ciclone informatico che stava innovando radicalmente i metodi produttivi. Con la conseguente crisi del modello fordista, basato sull’operaio-massa. Le mitiche “tute blu” si avviavano a diventare un mero ricordo oleografico delle grandi lotte del Novecento. L’informatizzazione e la “robotizzazione” di gran parte del sistema economico-produttivo imponevano una totale rivisitazione dei concetti di lavoro e tempo libero. Il movimento e le sue frange più avanzate lo avevano intuito. Come pure avevano avuto il merito di introdurre tematiche fino ad allora rimaste in ombra. Il femminismo. I diritti degli omosessuali. L’ambientalismo. Il diritto alla “felicità”. Molto meno lo avevano fatto le forze della sinistra tradizionale. Destinate a perdere l’egemonia sulle nuove generazioni e a subire passivamente le ristrutturazioni capitalistiche dei decenni successivi. Forse vale la pena, sia pure in un contesto mutato, riavviare quella riflessione. Potrebbe aiutare le attuali forze politiche a uscire dalle secche nelle quali sembrano incagliate.