Gennaio 1919. Un secolo fa, si apre a Parigi la conferenza di pace destinata a definire il nuovo quadro europeo scaturito dalla prima guerra mondiale. Un quadro totalmente sconvolto dal crollo di ben quattro imperi. Il primo è quello austro-ungarico. Sulle cui ceneri nasceranno una piccolissima Austria, con una grande capitale, un’Ungheria indipendente, una risorta Polonia, e due nuovi Stati: la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Il secondo è il Reich germanico. Che sarà sostituito da una Repubblica democratica. Il terzo è l’impero russo degli zar. Travolto dalla rivoluzione del febbraio 1917. Il quarto è quello ottomano. Con la Turchia ridotta all’Anatolia e a qualche lembo di territorio europeo sugli Stretti. Nel corso delle trattative, in particolare nella conferenza di Versailles (28 giugno 1919), emergeranno gravi difficoltà. Ci sarà innanzitutto, nella discussione sulle condizioni da imporre alla Germania, un contrasto evidente tra l’ideale, propugnato dal presidente americano Wilson, di una pace democratica, e quello, fatto proprio dai francesi, di una pace punitiva. Quest’ultima prevarrà con umilianti condizioni imposte alla Germania: pesantissime riparazioni economiche di guerra, abolizione del servizio di leva e della marina da guerra, smilitarizzazione della valle del Reno, cessioni territoriali (Alsazia-Lorena alla Francia; territori orientali alla Polonia; colonie spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone). Una scelta destinata ben presto a rivelarsi suicida e a favorire l’avvento del nazionalismo hitleriano. A tutto ciò si aggiungerà il fallimento della Società delle Nazioni, in seguito all’esclusione dei paesi vinti e della Russia sovietica. E dalla mancata adesione degli USA, in seguito alla politica isolazionistica scelta dal governo repubblicano (1920) dopo l’uscita di scena di Wilson, gravemente ammalato.
Le vicende della conferenza di Parigi si ripercuoteranno pesantemente anche sull’Italia. Alla base del risentimento italiano verso gli alleati, sintetizzato nel concetto di “vittoria mutilata”, ci sarà soprattutto il mancato riconoscimento di una parte della Dalmazia. Un compenso che pure era previsto nel Patto di Londra dell’aprile 1915, per premiare l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia). A negare il riconoscimento dei suddetti territori sarà, in particolare, Wilson. Con una duplice motivazione. La prima riguarda la stessa legittimità del Patto di Londra, classico esempio di “diplomazia segreta”, fermamente respinto nei Quattordici punti elaborati dal presidente americano in occasione dell’intervento in guerra. La seconda è legata invece alla necessità, anch’essa presente nei Quattordici punti, di rispettare il principio di nazionalità. In base ad esso, la Dalmazia, abitata in gran parte da una popolazione slava, andava attribuita alla Iugoslavia. Una nuova nazione, la cui nascita non era stata prevista nel Patto di Londra. Analoga intransigenza Wilson manifesterà nei confronti della richiesta italiana di Fiume, non prevista dal Patto. Di qui l’occupazione militare della città da parte di D’Annunzio e dei suoi legionari, nel settembre del 1919. Cui porrà termine, nel 1920, il governo Giolitti. Grazie al trattato di Rapallo con la Iugoslavia. Trattato che riconoscerà all’Italia l’Istria e la città dalmata di Zara. Mentre il resto della Dalmazia sarà assegnato alla Iugoslavia. Fiume sarà dichiarata “città libera” fino al 1924. Quando sarà assegnata all’Italia. Una soluzione equa che tuttavia non cancellerà le ferite inferte al sistema democratico-parlamentare dall’impresa fiumana di D’Annunzio. Una prassi che tendeva a legittimare l’uso della violenza nella risoluzione di un problema politico. E che diventerà di uso quotidiano nello squadrismo fascista. Del resto, nelle “gesta” dannunziane, sono esplicitamente presenti i tratti fondamentali del fascismo mussoliniano. Dalle parole d’ordine (eia, eia, eia, alalà), alla violenza verbale e fisica, alla ricerca del rapporto plebiscitario e “carismatico” con le folle plaudenti. Un sinistro precedente che induce a un’attenta riflessione tutti coloro che troppo facilmente indulgono all’applauso nei confronti di chi tende a calpestare le prerogative del sistema democratico-parlamentare in nome del rapporto diretto con il “popolo” e del “sovranismo”.