Accade che, in pieno terzo millennio, nel cuore dell’Europa “secolarizzata”, un politico italiano, nel corso della sua campagna elettorale, tiri in ballo il rosario e il Vangelo. Contando, ovviamente, sulla riuscita della sua esternazione in termini di consenso. Non c’è da stupirsi. Vale piuttosto la pena interrogarsi su quale sia il reale “tasso di laicità” di un Paese come l’Italia. E lo si può fare efficacemente ripercorrendo brevemente alcune tappe dell’evoluzione-involuzione di tale concetto nella nostra storia nazionale.
Lo Stato unitario in Italia (il “Regno d’Italia”) nasce nel 1861 con un’impostazione decisamente laica e anticlericale. Si capisce. La sua realizzazione ha comportato infatti uno scontro diretto con lo Stato Pontificio. A cui sono state sottratte Romagna, Marche e Umbria. Lo scontro è ancora più aspro dopo la conquista di Roma (1870). Destinata a diventare la capitale del Regno. I domini pontifici si riducono al piccolo Stato della Città del Vaticano. Il papa Pio IX si dichiara “prigioniero politico” degli italiani. E invita i cattolici a boicottare le istituzioni del Regno. Astenendosi dal partecipare alle elezioni. “Né eletti né elettori”. Il nuovo Stato ricambia l’ostilità accentuando il proprio anticlericalismo. In particolare nell’ambito culturale e scolastico. In cui domina l’impostazione positivistica. Tutt’altro che favorevole alla formazione religiosa.
Ma le cose sono destinate a cambiare negli anni ‘20 del ‘900. Quando l’uso della religione come instrumentum regni spinge il pur ateo Benito Mussolini (il quale ama auto-definirsi “cattolico non cristiano”), a introdurre, una serie di norme profondamente lesive della laicità dello Stato. Il primo passo si compie con la riforma della scuola, messa in atto nel 1923 dal ministro Giovanni Gentile. Il secondo con i Patti Lateranensi del 1929. Tra esse, il ripristino dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.
Con la caduta del fascismo e il ritorno della democrazia, il timore di scatenare nuove “guerre di religione” spinge i nostri padri costituenti, con la sola opposizione dei socialisti e del Partito d’Azione (in particolare di Piero Calamandrei), ma con il significativo consenso dei comunisti, a recepire nell’art. 7 della Costituzione (definito da Benedetto Croce “uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico”) i suddetti Patti:
“Articolo 7: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono
procedimento di revisione costituzionale”.
È difficile non ravvisare in detto articolo un evidente contrasto con il successivo art. 8, che prevede, al contrario, la pari dignità di tutte le posizioni religiose, escludendo implicitamente ogni forma di privilegio per alcuna di esse:
“Articolo 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino
con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
L’ambiguità della scelta costituzionale è evidente nel fatto che essa abbia sostanzialmente scontentato tutti. Così scrive Piero Calamandrei:
“Quando fu proclamato il risultato (359 favorevoli e 149 contrari) nessuno applaudì, nemmeno i democristiani, che parevano fortemente contrariati da una vittoria raggiunta con quell’aiuto [dei comunisti, n.d.r.]. Neppure i comunisti parevano allegri; e qualcuno notò che uscendo a tarda ora da quella seduta memoranda, camminavano a fronte bassa e senza parlare”.
L’attacco alla laicità dello Stato, nell’Italia del dopoguerra, è ulteriormente ravvisabile nella successiva cancellazione del 20 settembre (anniversario della conquista di Roma) dalle festività nazionali. Decisa in una seduta alla camera del 25 maggio 1949. Nonché nei reiterati attacchi condotti dal ministro democristiano Mario Scelba al “culturame laico”.
Bisogna attendere gli anni ‘60-70 perché, sia pur lentamente, lo spirito laico riprenda quota. E parte consistente dell’opinione pubblica cominci a manifestare segni di crescente insofferenza verso le norme concordatarie. Che iniziano ad essere condannate anche da molti cattolici. Al nuovo clima contribuisce indubbiamente il Concilio Vaticano II, attraverso il quale la Chiesa, in particolare con l’enciclica Gaudium et spes (1965), esorta sì i cristiani a partecipare “alla vita pubblica come cittadini”, ma invitandoli al tempo stesso “a non agire mai pretendendo di avere con sé la sua autorità”.
In tale atmosfera maturano le crescenti pressioni per la revisione del Concordato. Almeno nelle sue norme lesive nei confronti delle minoranze religiose (per non parlare di atei e agnostici). Dopo la lunga e vittoriosa lotta per il divorzio e la successiva approvazione della legge sull’interruzione della gravidanza, dei patti lateranensi rimarrà in vigore il solo trattato del Laterano. Con esclusione della disposizione più antidemocratica e anticostituzionale, contemplata nell’art. 1. Nel quale la religione cattolica, apostolica, romana era considerata la sola religione dello Stato italiano. Nel 1985 entrerà in vigore il nuovo Concordato, stipulato fra l’Italia e la santa sede il 18 febbraio 1984.
Ma le successive vicende dell’istituzione ecclesiastica (in particolare negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II) dimostreranno come le pulsioni integraliste e teocon, al suo interno, non siano mai state completamente sconfitte. Le attuali strumentalizzazioni politiche ne costituiscono un’esplicita conferma.