di EIDE SPEDICATO IENGO
La tarda modernità ha rimescolato le carte nel sistema dei rapporti tra i generi. Le donne scoprono la città (e con questa il mondo del lavoro) e gli uomini scoprono la casa, e con essa i suoi compiti, accanto ad una relazionalità più complessa, articolata, partecipe. Tuttavia, pur in presenza di questi innegabili cambiamenti, le prime -a fronte dei secondi- continuano a pagare il prezzo più alto perché gli stereotipi e i pregiudizi sono difficili da rimuovere e molte espressioni del mondo femminile continuano ad essere imbevute degli uni e degli altri. Il successo nel lavoro, per esempio, che rinvia a prassi e spazi ancora e prevalentemente maschili e contempla, solo occasionalmente, il genere femminile. Perché? Il motivo risiede nella circostanza che alle donne non sono mai stati dati il tempo, l’agio e l’opportunità di costruire un mondo a partire dal loro modo di intendere la realtà, compresa quella lavorativa. Così, e per dirla con Marina Terragni, se queste vogliono evitare segregazioni e penalizzazioni non devono limitarsi ad abbandonare il corpo della madre, devono abbandonare il loro stesso corpo e infilarsi nella pelle degli uomini (M. Terragni, La scomparsa delle donne, Mondadori, Milano, 2008). Ma, com’è intuitivo, aderire a questa norma significa rinforzare la cultura maschile e, invariabilmente, identificarsi con gli aspetti di potere del maschile.
Quanto accennato invita a porsi almeno una domanda. È possibile dimostrare le proprie competenze e raggiungere posizioni di prestigio senza dover necessariamente aderire a logiche costruite su profili non propri? La questione è -a dir poco- complessa, perché promuovere gli strumenti di valorizzazione del capitale umano femminile nel mercato del lavoro significa praticare quella norma culturale che riconosce la donna come un autentico alter. Il che, almeno nel nostro paese, non sembra al momento ancora prassi diffusa. Per tale motivo il lavoro femminile continua a soffrire di uno stigma ineliminabile cui poco possono norme e decreti: quello, appunto di riguardare le donne. Se poi queste sono mogli e madri, il quadro si complica ulteriormente; e se, in aggiunta, non amano la competizione e non sgomitano ostentando le proprie competenze le possibilità di adire posizioni di prestigio si allontanano ancora di più.
Ovviamente, pur in un mercato disegnato da e per gli uomini, si possono guadagnare spazi e portare avanti una battaglia di qualità che non comporta necessariamente l’assunzione della mentalità maschile. Si può, insomma, sconfinare da rivali nel territorio di questi senza rendersi complici della loro cultura; ma spesso il prezzo che si paga è molto alto. Per esempio, a quanto si deduce da numerose indagini sul tema, risulta spesso premiante ai fini della carriera (oltre e, talora, più della competenza professionale) la capacità di mostrare dedizione temporale e gratuita alla struttura, che carica di attributi sociali positivi chi si dimostra disponibile a questo vincolo simbolico. Tale prassi fa la differenza fra chi è disposto ad ossequiare questa norma e chi, invece, mostra di avere anche altre esigenze. Inutile segnalare che tale dimensione, che fa capo non tanto all’esserci quanto al mostrare di esserci, è in genere abitata dagli uomini. Perciò, a una donna che voglia raggiungere posizioni apicali non resta che vestire abiti non suoi. Va da sé che tale scelta ribadisce la svalutazione del femminile e conferma il dilemma che ha posto l’emancipazione fin dalla sua prima enunciazione: riuscire da maschio o fallire da femmina. È possibile non ci sia una via di mezzo?
Al momento, il peggior nemico delle donne lavoratrici sembra essere il tempo. O, più correttamente, l’attuale organizzazione del lavoro costruito, come si diceva, sul modello maschile. Anche nei comparti più femminilizzati le donne devono adattarsi al modo di lavorare degli uomini e adeguarsi ai loro ritmi e ai loro orari. Così, per molte la soluzione è quella di collocarsi in posizioni marginali e in offensivi stazionamenti destrutturanti che le induce irrimediabilmente a mettere da parte ogni aspirazione di mobilità ascendente. Marina Terragni, a questo proposito, scrive una pagina, tanto ironica e realistica quanto estendibile a qualsivoglia ambiente lavorativo. Ecco quanto annota: « È nelle riunioni che si perde la maggior parte del tempo […]. Si spende molto tempo anche nell’osservanza delle ritualità aziendali, nella recita dei ruoli, nell’andirivieni delle formalità, su e giù per la scala gerarchica, nelle manovre di corridoio e via dicendo […]. Le riunioni servono, sì, ma non tutte. Non così tante, e non di continuo. Ci sono riunioni di un’inutilità e di una noia devastante, in cui la liturgia, l’omaggio al capo contano molto di più dell’operatività effettiva. Le riunioni “in piedi”, poi, per una rapida impostazione del lavoro, nel nostro paese sono quasi sconosciute. C’è anche una retorica del lavoro d’équipe che andrebbe decisamente alleggerita. Anche da soli, se c’è amore, se c’è passione, si può fare benissimo. Chiedete a una donna a cosa sta pensando durante la seconda ora di riunione, e non è difficile che vi sentiate dire che in quelle due ore ci sarebbe stato un arrosto pronto, le tende lavate, il bambino dall’oculista o magari solo un rigenerante bagno caldo» (op. cit., pp.22-23).
Insomma la mancanza di strategie verso l’inserimento della questione femminile nell’ambito del processo di trasformazione del sistema-lavoro non solo compromette le chance di successo delle donne nello spazio lavorativo, ma non tiene in nessun conto quanto pesi per loro gestire la dimensione di giocolieri del quotidiano: intercettare e neutralizzare le interferenze dell’imprevisto, ricomporre il tempo pubblico e quello privato, muoversi all’interno di uno scenario in cui il principio di prestazione si associa e si alterna alla regolarità del tempo del lavoro. Per inciso: la gestione della doppia presenza fra casa e lavoro è una penalizzazione che viene vissuta dalle donne come un fatto del “tutto privato”, a dimostrazione che la divisione sessuale dei ruoli, è ancora attuale e vera: la cura degli altri continua ad essere un fatto da e di donne. Pertanto, e non infrequentemente, un’onesta analisi dei costi-benefici di ciò che si guadagna e di ciò che si perde nel dedicare la vita alla carriera orienta molte fra loro a ridurre le ambizioni professionali o addirittura ad interrompere il rapporto di lavoro.
L’atteggiamento difensivo e diffidente della organizzazione del lavoro nei confronti delle donne documenta perciò, e in modo inequivocabile, che per loro le prospettive di parità sono ancora un obiettivo remoto e l’eguaglianza una promessa non mantenuta. Diversamente, il sistema economico e produttivo avrebbe promosso percorsi pertinenti a sollecitare la loro presenza negli ambiti professionali nei quali sono sotto-rappresentate, nonché attivato correttivi per rompere la campana di vetro che ne impedisce l’accesso a ruoli più elevati e alla stanza dei bottoni. Ma così non è stato e non è. Non per caso le progressioni di carriera targate al femminile (che continuano ad essere più lente e meno remunerate) si colgono nei settori non strategici e solo tiepidamente nelle posizioni apicali. Non per caso, gli incentivi alle imprese e agli enti che realizzano servizi e strutture finalizzati a promuovere la conciliazione tra vita lavorativa e familiare, appaiono ancora gracili, poco incisivi e insufficienti a modificare le zoppie del sistema, come attestano i dati sulla disoccupazione femminile.
La presenza di strategie organizzative attente alle differenze di genere potrebbero, invece, armonizzare le esigenze della produzione con quelle di cura delle lavoratrici; dar luogo ad espressioni e comportamenti di eguaglianza sostanziale nel quotidiano lavorativo; orientare in direzione di forme più egualitarie il costume maschile che -va detto- sta portando avanti un difficile lavoro di ridefinizione di sé. Di qui la necessità di misure di politica sociale e servizi adeguati che producano soluzioni soprattutto di tipo culturale. Prima fra tutte quella di sollecitare, fra i generi, la necessità di “essere in relazione” e non in competizione.
La grande sfida, insomma, è trovare le parole giuste per sostenere che essere donna non è un ingombro, né una condizione che richiede costanti, sistematici correttivi per abitare la città degli uomini; trovare il modo giusto per conservare con cura il meglio della cultura femminile per diffonderla in quegli spazi lavorativi in cui la cultura di genere continua ancora a segregare il maschile e il femminile in registri espressivi e valutativi non conciliabili; trovare l’indirizzo giusto per insegnare a leggere la realtà con uno sguardo doppio e reciproco, quello degli uomini e quello delle donne, nella prospettiva di coniugare la centralità della soggettività con quella della relazionalità attraverso un nuovo paradigma basato sul pensare insieme.