Il processo di globalizzazione ha decostruito, in tempi molto rapidi, interi assetti geo-politici, economici, sociali, culturali, costruendone di nuovi. Ha rimpicciolito il mondo, contratto il tempo e reso innocuo lo spazio (le distanze non sono più insuperabili); gettato singoli e collettività, centri e periferie in stili di vita transnazionali e in poligamie di luogo; inciso vistosamente sulle forme di conoscenza, sulla vita di relazione, sulle biografie individuali. Tuttavia, e a dispetto di questi scenari impensabili anche solo pochi decenni fa, i valori della convivenza civile stentano tuttora a tradursi in patrimonio collettivo: vecchi dogmi, settarismi etnocentrici, ideologie discriminanti, abbagli grossolani continuano a infettare il piano delle relazioni fra diversi. Pur nella consapevolezza che i principi organizzativi di una società scientificamente e tecnologicamente avanzata non possano produrre automaticamente incremento di razionalità e di evoluzione sociale, un qualche significativo, maggiore e diffuso cambio di passo in questa direzione sarebbe stato auspicabile.
Quali, dunque, i motivi di tale riottosità a una inversione di rotta? In via prioritaria, va ricordato che nei millenni hanno prosperato ideologie che dividevano il mondo umano in due comparti: quello degli Identici (superiori, giusti, vincenti) e quello degli Altri (inferiori, perdenti, in errore). Dalla polis greca, questo orientamento ideologico (con il suo corteo di mitologie, implausibili tutelazionismi, gratuite discriminazioni) ha percorso la storia umana e, pur imbattendosi in autorevolissime, oppositive voci critiche[1], non ha trovato che rari inciampi nel suo percorso di conferma e stabilizzazione.
Ha attraversato, per esempio e vistosamente, il Novecento. A dispetto dello sviluppo della scienza e della tecnica, dell’immissione delle masse nella scena della storia, dell’accelerazione della modernizzazione, dell’avventura spaziale, il ventesimo secolo ha registrato prassi, pensieri e pratiche incompatibili con la fisionomia che stava progressivamente assumendo la società moderna e la moderna interpretazione del mondo fisico, sociale e culturale[2]. Lo attestano i miti del colonialismo e dell’imperialismo e le due devastanti guerre mondiali; e, poi, i genocidi, le pratiche di pulizia etnica, i razzismi, gli ostracismi ideologici, le segregazioni, le esclusioni, le restrizioni dalla parità dei diritti, i pregiudizi di ogni ordine e grado da cui è stato affetto. Ma anche nel secolo, ormai maggiorenne, in cui viviamo (almeno a quanto è dato rilevare dai suoi due primi decenni) l’orizzonte psicologico e culturale dell’esistenza umana non sembra aver girato pagina su questa sua patologica fase provinciale: le coscienze bloccate, le asimmetrie, le diseguaglianze, i pregiudizi di etnia, di gruppo, di classe, di religione continuano tranquillamente a circolare. Ne fa fede, per esempio, la vistosa domesticità del bullismo, del sessismo, della violenza gratuita, della discriminazione di razza e di genere che documenta, in modo inequivocabile, la permanenza di meschinità e arretratezze particolaristiche in una fase della storia che richiederebbe valori di tutt’altro segno. Quali le cause di tali persistenze?
Ogni società, come è noto, ha una sua propria maniera d’essere collettiva, un proprio sistema di significati, un proprio modo di dare forma e immagine al mondo. E, ogni società presenta delle categorie-feticcio che poco si prestano al vaglio della ragione. Vocaboli come patria, nazione, religione, razza, popolo, politica, pace, guerra, classe, libertà, giustizia, omosessualità, mascolinità, femminilità (solo per citarne alcuni) sono intrisi di contrastanti ideologie e immersi, per dirla con Remo Cantoni, in una atmosfera emozionale che li trasforma in simboli carichi di significati morali[3]. Logica vorrebbe che, nel tempo, queste idee venissero progressivamente valutate attraverso apparati concettuali adeguati alla morfologia di una società che ha cambiato volto: ossia (lo ripeto) attraverso il controllo della ragione. Ma l’esperienza quotidiana spesso segnala tutt’altro.
Tra i meccanismi psicologici e sociali che orientano in letture improprie e non sperimentate della realtà sociale, giocano un ruolo non certo marginale gli stereotipi e i pregiudizi che, pur con modalità e in toni differenti, condividono la funzione di generare pensieri in compendio sul mondo.
I primi sono credenze e informazioni semplificate e socialmente condivise sulle caratteristiche che accomunano i membri dei diversi gruppi sociali[4]. I secondi sono giudizi anticipati che, sulla base dell’abitudine o della tradizione, predispongono a pensare, percepire, agire (in modi favorevoli oppure ostili) nei confronti di un gruppo o dei suoi componenti. Sebbene contengano elementi di verità, gli stereotipi si basano tuttavia su informazioni insufficienti, esagerazioni, indebite generalizzazioni; i pregiudizi, invece, attraverso forme di distorsione percettiva e cognitiva etichettano singoli, gruppi e comunità in base all’appartenenza ad una precisa categoria. Superfluo segnalare in entrambi la funzione di artifici cognitivi frettolosi e assertivi della realtà. Basterebbe riflettere sulla circostanza che far parte di un gruppo o di un insieme e condividerne certi aspetti non significa lasciarsene assorbire e perdere la propria individualità: le persone concrete sono assai lontane dall’idea astratta che un giudizio di superficie può suggerire. Tra l’altro, anche sapere cosa qualcuno pensa o crede non è sufficiente per prevedere l’orientamento del suo comportamento. Per formulare previsioni di una qualche affidabilità sulle prassi altrui bisognerebbe conoscere anche cosa il soggetto in questione “sente”. Sono i sentimenti, infatti, che consentono di prevedere con maggior margine di sicurezza quali intenzioni e quali comportamenti potrebbero aver luogo[5].
Stereotipi e pregiudizi (che non sarebbe improprio definire concetti-fratelli) sono, dunque, scorciatoie cognitive categoriche e parziali, incriticate e pre-esistenti o, per dirla con Voltaire, “opinioni senza giudizio”[6] che, dando voce ad abbagli, equivoci, luoghi comuni, allevano coscienze incapaci di obbedire a vocazioni proprie e interiori. Ma stereotipi e pregiudizi sono anche espedienti che aiutano a rendere il mondo meno sconcertante e aleatorio, e, in particolare, a sorreggere nella valutazione di quei contesti, quelle circostanze, quei comportamenti che si presentano in forma ambigua, incerta, sfumata[7]. È in ragione di questa loro funzione -di supporto automatico nel processo di semplificazione degli elementi complessi e di categorizzazione dell’esperienza- che hanno agio di diffondersi e, anche quando l’ambiente che li ha prodotti si è vistosamente trasformato, perdurare[8] quasi fossero strutture invariabili e manifestazioni immutabili della natura dell’uomo.
È su questa loro capacità di condizionare l’esame dell’esperienza che poggia l’urgenza di svelarne le chiusure ideologiche, almeno per contenerne l’influenza. L’operazione è possibile, ma l’esito non può darsi per scontato. Il perché è lapalissiano. Per indebolire la forza d’inerzia di queste conoscenze collettive (e, in particolare, dei pregiudizi cosiddetti “freddi” che, all’apparenza più innocui di quelli “caldi” particolarmente aggressivi e vistosi, sono tuttavia più difficili da individuare ed emendare) occorrono, sul piano cognitivo e su quello emotivo, nuove letture e nuove interpretazioni di ciò che si dà per vero, acquisito, scontato, interiorizzato; e, sul piano strumentale, correttivi e sistemi di filtraggio che, al momento, non sembra occupino una particolare rilevanza nell’agenda politica e sociale, almeno nel nostro Paese.
Insomma, imparare ad allontanarsi (da) o almeno impegnarsi a controllare gli spazi “del già pensato” (per dirla nuovamente con Remo Cantoni[9]) non è semplice come cambiarsi d’abito. Tra l’altro, a usare il cervello si impara da piccoli e, a quanto è dato rilevare, il pensiero critico non sembra costituire l’obiettivo primario e più coltivato di scuola e famiglia. In ogni caso, varrebbe impegnarsi in tale direzione, almeno a livello personale, soprattutto perché – dati gli attuali scenari sociali in cui le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto (e imprevedibile) - non è peregrino supporre che stereotipi e pregiudizi possano, più che nel passato, ossigenarsi a pieni polmoni e corroborare lo spazio, peraltro già esteso, dei propri praticanti.
[1] Si pensi, per esempio, a Bacone o a Michel de Montaigne o a John Locke che suggerivano, quantunque con sfumature argomentative diverse, di mondare la lettura del mondo dalle scorie degli apriorismi e dei preconcetti e di prestare attenzione al ruolo che gioca l’ambiente e il contesto sociale nella definizione della categoria della civiltà.
[2] R. Cantoni, Illusione e pregiudizio, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. XII.
[3] Idem, p. 74
[4] Mucchi Faina A., Troppo giovani, troppo vecchi. Il pregiudizio sull’età, Laterza, Roma-Bari, 2013, p.25
[5] Mucchi Faina, op. cit., p.29
[6] Voltaire, Dizionario filosofico, Garzanti, Milano, 1999.
[7] Mucchi Faina, op. cit., p.26
[8] La stabilità degli stereotipi, per esempio, poggia su almeno tre fattori: perché vengono appresi in genere molto presto, nella prima infanzia; perché si trasmettono e crescono attraverso il linguaggio e la comunicazione; perché come altre conoscenze collettive costituiscono un’espressione del patrimonio culturale.
[9] Cantoni R, Antropologia quotidiana, Rizzoli, Milano, 1975