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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA PELLE CHE PARLA

eideLa pratica millenaria del tatuaggio ha assunto significati diversi in varie epoche e civiltà. Ed oggi conosce una nuova fioritura. Ma ha perso i suoi significati valoriali, simbolici e culturali, divenendo bene di consumo.

                                         di EIDE SPEDICATO IENGO

 

       A quanto rileva un recentissimo studio di Paolo Macchia e Maria Elisa Nannizzi dell’Università di Pisa[1] sulla geografia culturale e storica del tatuaggio in Occidente (e non solo), la pelle dei nostri connazionali appare sempre più decorata: circa 7 milioni, ossia il 13% della popolazione complessiva è attratto dalla body-art. Apprezzato dalle donne più che dagli uomini, il tatuaggio appare diffuso soprattutto fra gli adulti dai 25 ai 44 anni (47,3%) e, sebbene in percentuali più contenute, vuoi fra i giovani dai 18 ai 24 anni (21,8%), vuoi fra i minorenni (12/17 anni: 7,7%), vuoi fra coloro  che hanno varcato l’ingresso della maturità (45/54 anni:15,4%) e della “piena maturità” (oltre i 55 anni: 2,6%)[2]
     Questa pratica –rileva la ricerca-  è in linea con la media europea che si attesta al 12%; ha dato vita a numerose imprese economiche; promuove un considerevolissimo giro d’affari[3]; gode di apprezzamento presso tutti gli strati socio-economici della popolazione a prescindere dal titolo di studio, dall’attività lavorativa, dalla disponibilità economica; ed è diffusa in particolare nelle regioni del nord Italia (la Lombardia conta il numero più alto di imprese nazionali attive nel settore).
     Decorare il proprio corpo non costituisce, dunque, più una stravaganza o un’eccezione nel nostro paese. Tutt’altro: ma quali motivazioni –vien da chiedersi-  inducono uomini e donne, giovani e meno giovani a decorare indelebilmente aree estese del proprio corpo? A quali finalità e contenuti risponde oggi la forma comunicativa del tatuaggio?
     In via prioritaria va segnalato che questa pratica vanta una storia plurimillenaria[4] e ha dato voce, nello spazio e nel tempo, ad una mappa articolata e plurale di costumi di vita e modelli di pensiero. Come attestano le indagini etnografiche, il tatuaggio ha precisato funzioni e ruoli individuali e collettivi; certificato posizioni di rango e condizioni di subalternità; definito aree di inclusione e perimetri di esclusione; documentato manifestazioni di coraggio e forme di potere; veicolato espressioni di ribellismo e di dissenso; registrato l’adesione a riti, devozioni, regole, simboli, convinzioni, legami, credenze, visioni del mondo.
     Per esempio, se per la mentalità greca e poi per quella romana produrre incisioni sul corpo significava corromperlo e comprometterne l’armonia (da cui la valutazione del tatuaggio come stigma, segno da riservare agli schiavi, ai criminali, ai mercenari, ai disertori, ai gladiatori, ai prigionieri di guerra),  per i popoli della penisola balcanica e del bacino danubiano -quali i Traci,  i Sarmati, gli Sciti, gli Illiri-  il tatuaggio significava tutt’altro: costituiva un emblema della propria tribù, un attestato di valore e di coraggio, un espediente per incutere timore in battaglia[5]. Se nell’antico Giappone il tatuaggio rispondeva a motivi estetici, a scopi punitivi, a forme di opposizione politica, per le popolazioni indigene del Centro e del Sud Pacifico comunicava posizioni di status e di ruolo[6], certificava appartenenze di gruppo, costituiva elemento di seduzione, obbediva a ragioni di abbellimento del corpo, accompagnava riti iniziatici, serviva a fini apotropaici di protezione contro le malattie, i contagi, le epidemie, l’inconoscibile. Ovvero, e detto in modo molto sintetico, il tatuaggio, attraverso i suoi diversificati e variegati alfabeti, ha costituito nel tempo un medium comunicativo esplicito e diretto.
      Anche in anni a noi più vicini, quando in Occidente, nella seconda metà del XX secolo, cresceva la galassia delle proteste, delle rivolte, delle rivendicazioni, dei movimenti contro-culturali, la dissidenza dall’ordine sociale vigente (dichiarata anche attraverso la pelle tatuata) alludeva ad un vocabolario che non aveva bisogno di interpreti per essere compresa, quantunque venisse declinata secondo modalità assai diverse fra loro. Si pensi, al proposito, agli hippie o ai biker[7]e, poi, ai punk o agli skin-head o alle gang giovanili delle periferie delle grandi metropoli. Ma quali fattori sociali, culturali, ideologici sostengono, oggi, la body-art in Italia e negli altri principali Paesi dell’Occidente?
     Negli esempi ora e in precedenza citati, il tatuaggio rivestiva un forte valore sociale e collettivo; utilizzava un linguaggio codificato esplicito e lineare; comunicava con chiarezza appartenenze, obiettivi, identità, sistemi valoriali. Chiunque era in grado di capire cosa c’era dietro quei disegni fossero essi  «lo stigma della classicità, il segno identificativo di un guerriero Maori»[8] o la svastica usata dalle frange dei biker del Midwest americano fedeli alle ideologie naziste.
    Oggi all’opposto, nel mondo della revocabilità permanente di preferenze e legami, dello spaesamento, del noleggio ideologico, del radicale cambiamento dell’organizzazione della coabitazione umana, dello strappo della rete sociale , da cui un amalgama disordinato di conformismi, ribellismi senza ideologia, velleitarismi, liquidazione degli ideali, il tatuaggio sembra essersi trasformato in un fatto personale, intimo, autoreferenziale nel migliore dei casi, ma più spesso in un bene di consumo come un abito o un paio di scarpe: non per caso molti lo cancellano. Ossia, non presenta più alcun collegamento con i significati valoriali e i codici simbolici e culturali, per esempio, dei Sarmati, degli antichi giapponesi, dei nativi delle isole del Pacifico o dei punk. Più che un’ingegnosa forma comunicativa appare, piuttosto, un linguaggio muto e seriale o, meglio, un borborigmo che marca un territorio di vuoto e ossequia un padrone tanto ottuso e mediocre quanto persuasivo: il consumismo.

  

[1] P. Macchia, M.E. Nannizzi, Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio (Pisa, University Press, 2019)

[2] Idem, pp. 71-73

[3] Circa 80 milioni di euro all’anno nel 2009 secondo l’unica indagine disponibile al riguardo effettuata dalla Camera di Commercio di Monza e della Brianza. Idem, p.74

[4] In Italia, all’inizio dell’età del Rame (fine IV-fine III millennio a.C. circa) risale la più antica prova certa di questa pratica in Europa. Lo attesta il corpo dell’uomo di Similaun (Bolzano), soprannominato Otzi, ritrovato nel 1991 sul confine italo-austriaco delle Alpi. Questa mummia segnata in varie parti del corpo da incisioni di colore bluastro corrispondenti a degenerazioni ossee (rilevate ai raggi X), suggerisce la presenza di tale pratica verosimilmente rispondente a fini terapeutico-protettivi. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/tatuaggio/

[5]Di tali funzioni del tatuaggio si colgono cenni in Erodoto a proposito dei Traci, in Aristofane sugli Istriani, in Strabone sugli Iapodi della Dalmazia, in Plinio il Vecchio sui Sarmati. E, più tardi, in Erodiano sui Britanni, in Isidoro di Siviglia, in Beda il Venerabile sui Pitti della Scozia.

[6] Gli indigeni del Borneo erano soliti farsi tatuare un occhio sul palmo delle mani come viatico per raggiungere senza inciampi il mondo dei morti; a Samoa il tatuaggio era consentito solo ai capi-tribù e alle loro famiglie; nelle isole Marchesi era d’obbligo che gli uomini rivestissero totalmente di tatuaggi il proprio corpo (anche le piante dei piedi e l’interno delle orecchie) per proteggersi dalle forze avverse; nelle comunità Maori il tatuaggio facciale (moko) era consentito a tutti i componenti della comunità ad eccezione degli schiavi e di coloro che appartenevano alle classi sociali più umili. Cfr. P. Macchia, M.E. Nannizzi, op. cit., in particolare le pp.261 e 315.

[7] I bikers professavano uno stile di vita libero, on the road, alternativo alle regole della società americana dominante.

[8] P. Macchia, M.E. Nannizzi, op. cit, p.140

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