Fra le quindici tele che illustrano, sul finire del Settecento, le attività della Congrega Santa di Praga, una società religiosa ebraica che si occupava della cura dei defunti, figura anche la visita del medico ad un infermo di cui stringe la mano. Le due mani che entrano in contatto –quella del medico che rileva il polso e quella del malato che fiduciosamente si porge- emblematizzano una duplice relazione: tecnica e umana, di soccorso e di consolazione, di premura e di fiducia. O meglio: danno segno di un identico codice comunicativo, di uno stesso modo di concepire la situazione morbosa, di un identico modulo di solidarietà che, forse, neppure una malattia contagiosa avrebbe potuto compromettere. In particolare, informano sulla qualità dello strumentario antropologico del medico che sapeva auscultare e ascoltare, diagnosticare e confortare. Nel tempo, tuttavia, questa modalità relazionale della professione medica si è sempre più velata, opacizzata, logorata fino a rendere irragionevole quella che, per esempio, il medico ideologo dell’Encyclopédie Pierre J.G. Cabanis, negli stessi anni in cui operava la Congrega di Praga, riteneva la prima certitude della medicina, ovvero promuovere la conoscenza dell’uomo totale[1]. Infatti, negli anni a cavallo fra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, gli strumenti scopici prima e la rivoluzione farmacologica, poi, trasformarono agli occhi del medico, ora più terapeuta che diagnosta, lo stesso malato, sempre meno persona e sempre più organismo su cui intervenire per ripristinare lo stato di salute. La via alla spersonalizzazione, alla decontestualizzazione, alla destorificazione del paziente aveva trovato, nei presupposti tecnologici, la chiave d’ingresso.
È un’arte perduta, dunque, quella cui la tela di Praga allude. Un’arte che ha ceduto il passo ad un paradigma dualistico che -suddito della dimensione fenomenica e lontano dal mondo vitale del malato- pur svelando grandi enigmi non presta attenzione alla storia di chi soffre e degrada la conoscenza medica ad un sapere profondo ma anche sempre più distante da quell’area di confine in cui il corpo e la psiche dialogano e reciprocamente si influenzano. Di qui, vuoi la disabitudine, nell’operatore sanitario, ad individualizzare il rapporto con il malato e a riconoscerlo come un Io (trascurando, peraltro, l’aforisma che il primo farmaco che il malato chiede è il medico stesso), vuoi il progressivo scivolamento, nel paziente, a confidare non tanto nel “curante” quanto nelle cure, intese come esami diagnostici del danno subìto e come interventi terapeutici riparatori di quel danno. Se questa è la scena, il rapporto medico/paziente non può che imboccare percorsi comunicativamente freddi, insufficienti, giocati su relazioni impersonali, tipizzate, aderenti ad un copione tanto geometrico e prevedibile quanto distante da quella regione della comprensione comunicativa che poggia su un’autentica, significativa situazione dialogica. Così la ricetta, l’esame clinico, l’analisi di laboratorio diventano le parole di un vocabolario sempre più povero e scarno, talora addirittura iatrogeno. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla situazione ansiogena che produce la restituzione di una lastra o di un esame clinico se non accompagnati da corrette formule comunicative, o alla gamma di sentimenti che precedono o accompagnano qualsiasi intervento o procedimento diagnostico che possa compromettere l’inviolabilità e l’integrità del corpo.
A questo orientamento professionale contribuisce, del resto, la stessa didattica medica. Una didattica che, presentando una palmare sbilanciamento «tra le materie che si occupano della salute fisica e della cura della malattia e quelle che studiano la salute mentale e sociale dell’individuo»[2], presta scarsa attenzione al caleidoscopico tema dell’esistenza e orienta a considerare l’uomo malato un semplice e semplificato recettore-elaboratore di informazioni. Di qui il precetto (diffuso e consolidato) che «diagnosticare significa ridurre il malato alla malattia, la malattia ad un organo colpito, l’organo al segno del suo danno e il danno alla sua misura. Curare vuol dire, simmetricamente: correggere il segno per nascondere il danno, far tacere l’organo per fingere la sconfitta della malattia, coprire la malattia per simulare la salute»[3].
È la radicalità di questo atteggiamento positivistico e meccanicistico (di stampo teologico e cartesiano, teso a concentrare l’attenzione sul frammento compromesso) che promuove il modello di una prassi professionale che riduce il paziente ad una macchina biologica guastata (della quale si possono sostituire gli organi come pezzi di ricambio o addirittura manipolare a livelli più fini i tessuti e le cellule con interventi molecolari, col risultato di diffondere un mito, se non un delirio di onnipotenza[4]); che domanda saperi sempre più profondi ma segmentati e disgiunti; che nutre una cultura medica dalla curvatura professionale deterministica, geometrica, legittimata a servirsi di tipologie d’intervento e allestimenti pragmatici frammentari, momentaneistici, galvanizzati di fronte alla prospettiva letale, ma indifferenti di fronte al riduzionismo esistenziale; che ostacola qualsiasi espressione di alleanza terapeutica fra il medico e il paziente; che contrasta l’impostazione di qualsivoglia modello innovativo di assistenza sanitaria; che alimenta il culto feticistico del farmaco e delle “macchine”; che sostiene l’impalcatura di una cultura medica manageriale e strumentale, impegnata a premiare il gioco dei molteplici e articolati interessi economici che ruotano intorno alla realtà della malattia.
Quanto appena detto pone alcuni inevitabili interrogativi. Per esempio: la medicina contemporanea tiene consapevolmente conto della qualità e della equità delle cure? E, inoltre, i titolari della professione sanitaria sono interessati alla ri-motivazione di sé e all’affinamento delle strategie di lettura del proprio campo professionale per evitare la trappola di ridursi a seguaci di geometriche linee-guida computerizzate, non diverse da quelle che guidano un meccanico nell’individuazione dei guasti di un motore? E, infine, il medico, oltre che aggiornarsi e specializzarsi, fa anche il tentativo di “acculturarsi”, ovvero di riappropriarsi «della cultura sua propria, antropologica oltre che tecnologica, una cultura ippocratica per la quale la tèchne, l’arte della cura è il mezzo, ma l’àntrophos, l’uomo, è il fine ultimo, o primo?»[5]. Questi interrogativi sono tuttora, a quanto è dato constatare, senza risposta, tranne virtuose eccezioni. Ovviamente qui non è in causa, per dirla con Pierpaolo Donati, «la medicina come scienza e come apparato tecnico che agisce a livello bio-organico»[6], la riserva è sulla riduttiva strategia di approccio a cui sostanzialmente finora la pratica medica ha fatto e fa riferimento.
Va da sé che sintonizzarsi sul registro dei bisogni del soggetto malato non è espressione di una capacità innata o acquisita una volta per tutte. È, all’opposto, il capitolo di un progetto professionale che va costantemente, sistematicamente coltivato. È questo il presupposto per riuscire ad ascoltare almeno i sussurri delle esistenze minacciate o compromesse dalla malattia, per stabilire un rapporto simpatetico tra chi presta le cure e chi ne fruisce, per riattivare i micro-processi interattivi, ossia quei delicatissimi sensori che possono procurare benessere anche solo attraverso due mani che entrano in contatto.
(Nella foto: Pablo Picasso, Scienza e carità, 1897, Barcellona, Museo Picasso)
[1] P.J.G. Cabanis, La certezza della medicina (a cura di S.Moravia), trad.it., Laterza, Bari, 1974
[2] G. Bert, Il medico immaginario e il malato per forza, Feltrinelli, Milano, 1977, p.66
[3] G.A. Maccacaro, Classe e salute in AA.VV., La salute in fabbrica, vol. I, Savelli, Roma, 1974, p.30
[4] G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Bari, 2001, p.384
[5] Idem, p.387
[6] P. Donati, Manuale di Sociologia sanitaria, NIS, Roma, 1991, p.32