L’immagine della vita sociale come rappresentazione scenica ha goduto nel tempo di autorevoli consensi. Seneca, per esempio, la definiva una commedia; William Shakespeare un teatro; Francisco Goya una mascherata, in cui tutto è studiato a tavolino affinché ciascuno possa sembrare ciò che non è. Erving Goffman, il teorico della drammaturgia sociale, riteneva la società un teatro del quotidiano, costituito da un insieme di ruoli che ciascuno recita di fronte agli altri[1]; e, al proposito, Remo Cantoni, un intellettuale fra i più raffinati del panorama italiano della seconda metà del secolo scorso, precisava che fra attore e cittadino, teatro e società, esiste «un’analogia che non è soltanto metaforica. Ogni ruolo è una prestazione scenica, una recitazione legate a certe norme, a certi criteri che sono, per solito, istituzionalizzati»[2].
Ma potrebbe essere diversamente? Che lo si condivida o no, appare inequivocabile che qualsiasi espressione della vita associata non può prescindere da un certo grado di teatralità, cerimonia, rappresentazione pubblica. Ne è prova la circostanza che, se si scompone un fatto sociale fino alla sua unità elementare, non si incontra l’individuo (concepito come il non più divisibile), si trova invece l’individuo che recita un ruolo, di cui è attore e portatore[3]. Ogni società, insomma, è costituita da un sistema coordinato di parti affidate o, meglio, recitate da soggetti-attori, titolari di ruoli che servono a ridurre l’instabilità delle relazioni e ad assicurare l’equilibrio del sistema. Ciò spiega anche l’importanza dei rituali sociali (le regole del saper vivere) che orientano ognuno a “mettersi in scena” e a recitare la propria parte[4] che, ovviamente, viene declinata in modi diversi a seconda delle società, delle culture, degli ambienti di cui si è parte: in quelli a maglie strette i margini per scelte proprie si riducono (e, infatti, più che vivere la propria vita, l’individuo è vissuto dalla società); per converso, in quelli più liberali i ruoli vengono interpretati in modo più personalizzato, ma non tale da annullare i vincoli che vigono nella società cui si appartiene.
Comunque lo si declini, il ruolo costituisce una espressione del sé sociale che non può essere evitato[5], anche se fra l’apparire e l’essere, la maschera e il volto, il ruolo e l’individuo (nella sua unicità) possono riscontarsi antagonismi, contraddizioni, disaccordi, come ebbe a dimostrare Luigi Pirandello nel suo romanzo Il fu Mattia Pascal, in cui polemizzava contro la società che congela, appunto, l’individuo nella maschera e la vita nella forma.
Secondo Goffman, la dissonanza fra il volto e la maschera è da attribuire al fatto che l’individuo si muove su un doppio livello: quello dell’identità esistenziale che lo dota del senso della propria unicità e della propria stabilità nel tempo, e quello dell’identità sociale che serve a confermarne la “faccia” pubblica. Ovviamente, far coincidere queste due espressioni dell’identità non è operazione di poco conto. Per esempio, aderire a ruoli nei quali non ci si riconosce, oppure fingere convinzioni a cui non si crede può essere logorante. Ecco perché è legittimo «cercare di far combaciare il più possibile l’identità esistenziale con quella sociale, oppure limitare le “recite” allo stretto necessario»[6], se non si può fare diversamente.
Ma, torno a ripeterlo, la vita senza ruoli sociali sarebbe ingestibile e, al pari del mito della libertà assoluta, sarebbe velleitario oltre che pericoloso auspicarne l’avvento. Se così fosse, la società si trasformerebbe in uno spazio caotico e invivibile, una piazza senza perimetri in cui disinvolti mercati di significato renderebbero i rapporti interpersonali imprevedibili e precari, le esistenze socialmente superflue e inaffidabili, gli individui transfughi dalle funzioni che ogni società richiede ai suoi membri[7].
È l’adesione al principio di realtà che -imponendo il rispetto delle norme, dei criteri, dei rituali indispensabili per il funzionamento della società- chiede a ciascuno l’impegno della recita. Recita che, in ogni caso (a meno che non si viva in ambienti ad alto grado di prescrizione sociale), può essere interpretata utilizzando margini di manovra, discrezionalità, negoziazione per temperare e contenere gli effetti della razionalizzazione e della burocratizzazione che, come si accennava, possono irrigidirla e ritualizzarla fuor di misura. Sta, dunque, all’attore sociale decidere se muoversi esclusivamente sulla ribalta o innervare questo spazio anche con le prassi e le inclinazioni più duttili e fragili del retroscena, in cui, in genere, viene opacizzato l’equipaggiamento espressivo e standardizzato della fase sociale della rappresentazione. Va da sé che il dialogo fra questi due spazi interpretativi (come accennato) produce immancabilmente tensioni e rischi di fallimento, ma la vita sociale non è mai idillio o armonia prestabilita[8], è piuttosto un perimetro in cui non mancano le contraddizioni e gli sforzi per contenerli.
Sarebbe dunque da auspicare che, a livello collettivo, i ruoli venissero interpretati in modo critico, consapevole, equilibrato, intellettualmente onesto, cercando di temperare le dissonanze fra pubblico e privato, identità esistenziale e identità sociale, proscenio e retroscena. Ma il condizionale in questo caso diventa d’obbligo a motivo della circostanza che, nelle arene sociali dell’oggi sempre più frammentate e de-istituzionalizzate, vanno invece irrobustendosi sia la suggestione a lasciarsi intrappolare nella gabbia della recita permanente[9], sia l’orientamento che -ritenendo legittimo svincolarsi da ogni laccio e lacciuolo per mostrarsi veri, autentici, spontanei, liberi- incoraggia la pratica del disordine e della trasgressione. È intuitivo che l’una e l’altra di queste modalità comportamentali appaiono profondamente inadeguate a leggere e interpretare le incertezze di questo nostro tempo dissonante e confuso: rappresentano, infatti, il rovescio della capacità di promuovere vuoi la visione contestuale e situazionale che insegna a mettere a fuoco le funzioni sempre “in metamorfosi” del ruolo, vuoi l’operazione maieutica che orienta nella conoscenza di sé[10].
[1] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, 1969.
[2] R. Cantoni, Antropologia quotidiana, Rizzoli, 1975, p.217.
[3] F. Ferrarotti, Manuale di Sociologia, Laterza, 1986, p.33.
[4] A. Oliverio Ferraris, La ricerca dell’identità, Giunti, 2002, p.19.
[5] Per inciso: anche chi ritiene che qualsiasi ruolo sia uno strumento lesivo della libertà individuale, indossa suo malgrado un ruolo: quello di marginale.
[6] A. Oliverio Ferraris, op. cit., p.19.
[7] R. Cantoni, Antropologia quotidiana, Rizzoli, 1975, p.217.
[8] Idem, p.50.
[9] Mi riferisco qui (ma tanti altri esempi si potrebbero fare) a coloro che, ormai “fuori” dall’ambiente di lavoro per motivi anagrafici, persistono in malinconiche e patetiche frequentazioni dei colleghi e degli spazi a lungo abitati, esponendosi al rischio di spaesamenti e di percezioni negative di sé; oppure a chi, inseguendo un’immagine fisica idealizzata, ritiene taumaturgico il bisturi del chirurgo estetico per congelare la propria immagine in un presente senza tempo; o a chi non riesce a dismettere il proprio ruolo di genitore-marsupio continuando a gestire pesantemente la vita dei propri figli anche quando questi sono entrati a pieno titolo nella fase adulta.
[10]Idem, p.84.