C’era una volta il Grand Tour, il viaggio che perfezionava il sistema di istruzione e apprendimento dei giovani aristocratici e alto borghesi europei, in particolare attraverso la conoscenza dei luoghi della classicità e i paesi di più antica civiltà, come l’Italia e la Grecia. Simbolo qualitativo di privilegi di status e di appartenenza, questo tipo di viaggio (che durava non meno di dodici mesi e talora sfiorava i tre anni) costituiva la tessera esplicativa di un progetto di vita che permetteva di accumulare esperienze, disporre alla relazione con realtà e situazioni nuove, esporre all’insolito, uscire dall’abituale, aprire alla discussione di sé. Alla partenza si conosceva il motivo per il quale si decideva di partire, il ritorno era la sintesi della premessa con la gamma di scelte che erano state compiute durante il percorso. La modernità, e in particolare, la contemporaneità hanno cancellato questa modalità esperienziale, trasformato il viaggio in vacanza, in mobilità territoriale a tempo determinato.
Con la riorganizzazione dei ritmi di lavoro, legata alla rivoluzione industriale che ha imposto una nuova distribuzione dei tempi sociali e accompagnato la nascita della nozione di tempo libero, comincia infatti a delinearsi anche l’idea di viaggio come interruzione del quotidiano, piacere liberato dalla necessità, vacanza, distrazione, turismo. Già nella seconda metà dell’Ottocento iniziano a cogliersi i primi segni di quella che poi diventerà, appunto, l’industria turistica: in Europa, l’ingegnere Georges Nagelmackers fonda, non casualmente a metà Ottocento (precisamente nel 1876) la Compagnie Internationale des Wagons-Lits.
Questo cambio di passo fa perdere al viaggio non poche delle sue caratteristiche originarie: in quanto esperienza turistica si trasforma progressivamente in mobilità territoriale a tempo determinato, in traiettoria circolare e, via via nel tempo, in fuga stizzosa attraverso luoghi diversi. Non casualmente Franco Ferrarotti ebbe a scrivere, ormai quasi vent’anni fa, che in un mondo in cui tutti viaggiano è proprio il viaggio a eclissarsi[1], a smarrire il significato della sua natura. E non potrebbe essere diversamente. Il viaggio bulimico, frettoloso, distratto, incurante dei contenuti, sordo alle situazioni, cieco di fronte alle differenze non può che disegnare questo scenario[2].
Il turista, infatti, sempre più consumatore agito e sedotto dal menù dei messaggi pubblicitari, non si prefigge di fare e accumulare esperienze come il viaggiatore, vuole solo vedersi in luoghi non quotidiani, sentirsi in vacanza, strappare il senso di routine. La sua motivazione a muoversi, poggiando sul bisogno di evasione, lo porta ora ad immergersi nel flusso ludico dei parchi ricreativi e negli ambienti artificiali dei mondi alla Disney, ora a scoprire luoghi snaturati, comunità in maschera (si pensi ai living-museum o agli heritage park), ora ad abbandonarsi a paradisi consumistici, ora ad attraversare spazi alla moda rumorosi e affollati in cui si corre vorticosamente davanti a chiese, statue, monumenti, palazzi in una specie di affannata gincana che appiattisce in un groviglio di immagini ciò che la vista consegna. Abita, così, provvisoriamente spazi uniformi, confezionati da altri, spesso scelti per imitazione (perché altri lo fanno) che, governati in massima parte dai tour operator e presumibilmente già avvicinati attraverso le pagine di una guida turistica, lo escludono da qualsivoglia autentica esperienza (per inciso: il villaggio globale è riuscito malevolmente ad omologare anche l'immaginario). In questo modo gira il mondo, attraversa paesaggi, incrocia culture e ambienti diversi dai propri ma non cammina loro accanto, né si sofferma ad osservarli. All’opposto, rimane robustamente seduto sulle proprie certezze: nessuna crepa pare destabilizzarne l’impianto e l’apporto culturale del viaggio « si traduce nell’esaltazione di un feticismo degli oggetti-ricordo, delle fotografie scattate, dell’esotico in carta patinata e dei filmati da proiettare a testimonianza dell’esperienza vissuta»[3].
Dunque, diversamente dal viaggiatore, il turista (o, meglio, l’iper-turista telecomandato) affonda in un’implosione di simboli, di effimero, di riciclaggio sublimato, di immagini e informazioni corticali che non impegnano in alcun esame di sé, soprattutto perché mancano di quegli ingredienti insostituibili nella realtà del viaggiatore: la lentezza, la pazienza, la calma, la riflessione, la capacità di valutare, immagazzinare informazioni, metabolizzare dati, fare confronti.
Questa considerazione sul turista “affannato” e “distratto” mi porta a pensare a John Franklin, uno dei più grandi esploratori artici inglesi che amava la calma, la pazienza, la ponderazione, ma che fino a dieci anni non riusciva ancora ad afferrare la palla che i suoi compagni gli lanciavano. Lo si sarebbe detto un disadattato. E, invece, valutava, immagazzinava informazioni, metabolizzava dati, costruiva dentro di sé una sicurezza incrollabile. Quella sicurezza che gli avrebbe insegnato che ogni cosa è piena di senso se si ha la pazienza di scoprirla e che ne avrebbe fatto l’esploratore inappagato del leggendario passaggio a nord-ovest.
[1] F. Ferrarotti, Partire tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma, 1999. Ciò, tuttavia, non esclude che anche il viaggio più banale possa produrre de-ritualizzazione dell’esperienza personale e forme di ri-orientamento del soggetto.
[2] Idem.
[3] W. Pasini, Il viaggio e i suoi significati. htpp://www.superando.it/2006/08/28/il-viaggio-e-i-suoi-significati/