Vissute con noncuranza, le attività di routine della vita quotidiana costituiscono in realtà un insieme che dà il senso alla nostra esistenza. Sono, insomma, la vita. Che può essere guardata con occhi diversi. E vissuta sfuggendo al dispotismo della velocità.
Qualsiasi biografia, scorre all’interno di un tempo definito da due eventi definiti (la nascita e la morte) e si sviluppa nello spazio di coordinate altrettanto definite, quali la casa, il lavoro, il luogo in cui si abita, il piano delle relazioni[1]. Tale dimensione spazio-temporale in cui si svolgono attività di routine (come svegliarsi, fare colazione, portare a scuola i figli, andare al lavoro, incontrare gli amici e tanto altro ancora), costituisce la vita quotidiana. Data la consuetudine che lo caratterizza, a questo tessuto di abitudini, prassi, micro-rituali quotidiani non si dedica che nulla o scarsa attenzione.
Ma a torto: perché il mondo della vita quotidiana è tutt’altro che un contenitore di ovvietà. Quantunque sia irrigidito in schemi che si ripetono, è tuttavia significativo quanto importante per almeno tre motivi: perché rappresenta la dimensione nella quale, attivamente e giorno dopo giorno, si costruisce il senso del nostro essere al mondo, imparando regole, rivestendo ruoli, gestendo gli accadimenti imprevisti, facendo esperienza di limiti e opportunità; perché allestisce il palcoscenico della realtà soggettiva e intersoggettiva in cui ci si impegna a rendere abitabile lo spazio in cui si vive[2]; perché definisce lo spazio-tempo in cui si esprime la concretezza dell’uomo nel suo agire, pensare, godere, soffrire, riuscire e fallire giorno per giorno[3]. Insomma, e detto in modo stenografico, la vita quotidiana è « la vita che abbiamo, è la vita di cui abbiamo responsabilità, quella sulla cui qualità e sulla cui capacità di apparirci “significativa” valutiamo concretamente la nostra soddisfazione o la nostra infelicità»[4].
Ma, come si accennava, a dispetto della sua complessità, questa realtà (a meno che non sia stravolta da eventi particolari) viene vissuta con noncuranza, quasi senza pensarci. È questo atteggiamento che dà luogo alla quotidianità, ossia a quella tipologia di pensiero che intorpidisce nell’abitudine e nell’ovvietà delle prassi. Lasciarsi assorbire dai gesti automatici di ogni giorno ha, comunque, una sua ragion d’essere: diversamente si sarebbe costretti a sottoporre a valutazione ogni azione, anche la più spicciola. La qual cosa renderebbe ingestibile la vita, come del resto la renderebbe insensata se si dovesse ricondurre alla logica di tipologie già note qualunque comportamento.
Asserire che la quotidianità è un contenitore di azioni prevedibili non significa, comunque, sostenere che l’agire umano sia esclusivamente il portato di modelli routinizzati. Tutt’altro. Quantunque l’individuo sia condizionato a scegliere nella situazione datata e vissuta, è anche un attore cosciente e riflessivo che possiede la capacità di orientare il proprio agire. Ovvero, trascendere il confine delle inerzie abituali si può, purché lo si voglia o si sia in grado di volerlo. Ovviamente, si tira invariabilmente fuori da tale eventualità chi abita il quotidiano con apatia o con pessimismo, chi lo legge con intenzionale indifferenza, chi si impantana nella recita dei ruoli, chi segue solo le suggestioni e le mode del momento, chi si snerva nell’attesa e nella speranza.
Ma, come appena detto, guardare con occhi nuovi ciò che fa parte del nostro paesaggio abituale, è possibile, anche se non facile. Riequilibrare il proprio rapporto con il tempo è, ad esempio, un primo passo in questa direzione. In antitesi all’attuale dispotismo della fretta (che spesso si traduce in patologia), la sosta, la pausa, l’intervallo permettono di ritagliare uno spazio fisico e un luogo della mente in cui è possibile prendersi cura di sé, godere di un’emozione, di una sorpresa, di un incontro inatteso, di una conversazione intelligente, del piacere di una lettura, di un ricordo che rinvia a sensazioni e percezioni accumulate dalla coscienza. Fatti minimi, senza dubbio, ma indispensabili per uscire dal fondamentalismo e dalle strettoie di una quotidianità sempre più agitata, arida, sciatta.
Imparare a governare il tempo, piuttosto che esserne governati, si può anche se gli scenari socio-economici dell’oggi remano contro. Si può, per esempio, uscendo dai binari delle prassi abituali, rallentando il passo (almeno negli spazi del tempo libero), allestendo piazzole di sosta per imprimere un giusto ritmo al corpo e al pensiero[5]. Come antidoto alla patologia della fretta si potrebbe, inoltre, assumere un farmaco che non costa niente: camminare, un atto che il pensiero antico coniugava non casualmente con la stessa filosofia: Solvitur ambulando (“si risolve camminando”).
Sul pensiero lento (che, beninteso, critica la deriva incontrollata della velocità, non la velocità in quanto tale[6]) e sulla funzione dell’andare a piedi ha indugiato a lungo e scritto pagine illuminanti Franco Cassano. Passeggiare è «un’arte povera, un far niente pieno di cose […]»[7], precisa. Una pratica che consente di abbandonare la linea retta, fare digressioni, improvvisare percorsi, assaporare il gusto dell’adagio che sa opporsi alla disarmonia della velocità. Passeggiare è un corroborante dell’esistenza che permette di staccare la spina alla monotonia quotidiana. Come? Per esempio, dando spazio a ricordi, pensieri, affetti; oppure assaggiando l’aria con il naso e con la pelle; oppure prendendo le distanze vuoi da quelle società che hanno abolito le domeniche e le notti e reso ogni spazio un negozio; oppure contenendo l’arrogante invadenza e l’inflessibile rigidità del tempo-freccia che corre solo in avanti e giocare con la giornata, decidendo che se ne può perdere un pezzo se la si vuole guadagnare.
Camminare, rallentare, prendere le distanze da ogni tipo di sfida e competizione gratuite è, pertanto, un modo diverso di vivere e leggere il mondo: abitarlo “a passo d’uomo”[8]. Questo tipo di andatura -in cui si mobilitano le energie dell’intelligenza, della volontà, dell’immaginazione- dovrebbe diventare prassi quotidiana. Rappresenta, infatti, la chiave di accesso più pertinente per liberarsi dai lacci e dai lacciuoli delle ovvietà del presente, romperne le strettoie, inscriverlo in tracciati di equilibrio, misura, possibilità, cura, renderne riflessivi anche i lati d’ombra che ne interrompono, talora rovinosamente, la linearità (come il dolore e la fragilità dell’esistenza).
L’andatura “a passo d’uomo” andrebbe praticata programmaticamente nello spazio domestico, il più esposto alla routine, ai gesti scontati, alle espressioni di disattenzione reciproca e oggi, in particolare, segnato da codici comportamentali limitati e di basso profilo che si aprono disinvoltamente all’indifferenza, alla sciatteria, alla volgarità, alla sconvenienza, alla villania. Quantunque la frequenza dell’uso spenga la curiosità e affievolisca l’attenzione nei confronti delle persone e cose che fanno parte della quotidianità, tuttavia non si dovrebbe mai privare questo spazio di quei tonici dell’esistenza che rendono sapido anche il gesto più consueto. Mi riferisco qui alle qualità sociali della gentilezza, della cortesia, dell’educazione che - praticamente dismesse a livello collettivo (quasi costituisse uno snobismo il seguirle)- renderebbero “ricchi” (se praticate) anche i momenti e i gesti più consueti e banali. Voglio dire che se si fosse abituati a timbrare il presente di segni anche piccoli di premura e sollecitudine nei confronti di chi ci è vicino –come riempire la zuccheriera per la colazione, prima che gli altri la trovino vuota[9]- verosimilmente quei tanti copioni familiari in cui ci si alza al mattino e non ci si augura il buongiorno; si « entra ed esce di casa, senza un saluto; si risponde all’altro con un grugnito; ci si siede a tavola e si accende subito il televisore […]»[10] non disporrebbero più di attori per metterli in scena.
Allo spazio della vita quotidiana si deve (si dovrebbe) perciò accordare particolare riguardo: sia perché -come già detto- definisce il “nostro mondo”, l’unico che abbiamo (quello in cui si snoda il nostro vissuto, quello del quale siamo responsabili); sia perché rappresenta una tessera della polis, il luogo in cui si costruiscono le relazioni umane e sociali, si impara a stare insieme, a interiorizzare ciò che è giusto o ingiusto, civile o incivile, corretto o scorretto. La vita, che lo si voglia o no, è fatta delle cose che abbiamo e di quelle che abbiamo avuto, di quelle che non crediamo di avere e di quelle che non siamo in grado di apprezzare, di quelle che non abbiamo ma che possono suggerire aspirazioni a progredire e mete da raggiungere. È il tipo di accoglienza che a queste riserviamo (o abbiamo riservato) che fa la differenza fra il permanere nella disattenzione abituale della quotidianità o l’uscirne e lasciarsela alle spalle.
[1] Ghisleni M., “Vita quotidiana”, in Melucci A. (a cura di), Parole chiave, Carocci, Roma, 2000, p.220.
[2] Jedlowski P., Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p.165
[3] Cantoni R., Antropologia quotidiana, Rizzoli, Milano, 1975, p.7
[4] Jedlowski P., op.cit., p. 165
[5] Cianci N., Viandanti e naviganti. Educare alla lentezza al tempo di internet, Youcanprint Self-Publishing, 2015, p.27
[6] Idem, p19
[7] Cassano F., Modernizzare stanca, il Mulino, Bologna, 2001, p.150
[8] Cianci N., op. cit.
[9] Ravasi G., Le parole e i giorni, Mondadori, Milano, 2010, p.276
[10] Idem, p. 273