di EIDE SPEDICATO IENGO
Solo all’apparenza è arbitrario associare la coppia chiaro/scuro alla dimensione olfattiva. In realtà, nell’intricato labirinto della cultura, l’olfatto delimita un denso alfabeto semantico che materializza e individualizza impressioni ed indizi anche attraverso classi discontinue e poco prossime. Nello spazio sociale, infatti, l’esperienza degli odori non è riducibile alla sola grammatica chimica e fisica della sostanza odorosa, né il registro fisiologico è il metro esaustivo della reattività agli odori. È fuor di dubbio: il determinismo dell’una e il meccanicismo dell’altro illustrano un segmento conoscitivo di questo cosmo impalpabile e felpato, ma lasciano in ombra l’insieme significante che sottende il linguaggio olfattivo. Si vuol dire che ciascun odore, quando viene filtrato dalle esperienze individuali e segnato dalla logica della cultura, assume un significato autonomo che lo associa ad un particolare contesto di esperienza. Si trasforma, così, in un’antenna capace di anticipare o rievocare «situazioni, episodi, presenze gradevoli, neutre o sgradevoli»[1] e, quindi, allestire un catalogo di indizi comunicanti, vincolati all’assortimento dell’esperienza personale. Tra l’altro, non si dimentichi che la sezione del cervello predisposta a ricevere i messaggi olfattivi è la stessa che elabora le emozioni e la memoria. Per dirla con una metafora, il nostro naso può paragonarsi ad una sorta di cilindro da prestigiatore che conserva intatto l’odore di ogni frammento della realtà sperimentata.
È in questo modo che il potenziale simbolizzante dell’olfatto può segnalare odori chiari, ossia vitali e culturalmente positivi, e all’opposto odori scuri, ovvero inconsolabili, pungenti, culturalmente negativi. È in questa accezione che gli odori chiari e gli odori scuri si associano a differenti significati morali e possono delimitare storie di piacere e vicende di disgusto; di più: descrivere disegni armoniosi e scenari repulsivi, realtà di ordine e spazi di disordine, nicchie di santità e luoghi inferici, mondi di luce e profondità di tenebre[2]. È attraverso questa chiave di lettura, inoltre, che possono proiettarsi sul piano dell’espressione contenuti olfattivi altrimenti senza immagine e senza rifrazione, e trasformare un odore nel regista impeccabile di un racconto. Un racconto che, ovviamente, è puntigliosamente tanto più ricco quanto più l’olfatto è eletto a sensibile congegno di valutazione della realtà, quanto più è lasciato libero di scandagliare l’anima delle sostanze, quanto meno viene addomesticato. Un racconto, perciò, che per poter essere allestito deve poggiare su una serie di ingredienti ricchi di valenze simboliche. Diversamente, la loro assenza può ridurre al silenzio o, più correttamente all’oblio olfattivo, una straordinaria eredità conoscitiva in cui vissuti personali e storie collettive si confondono ed amalgamano.
Basterebbe pensare, per esempio, a quando questo senso «dava l’indicazione di un giorno diverso, d’una speciale dieta sacra»[3]; o quando si avvertiva una domenica fiutandola[4]. O quando l’alfabeto dell’odorato allacciava un dialogo, attraverso il cibo e i suoi aromi, con il cosmo sacro (i dolci rituali, i pani propiziatori), con i nuovi venuti (le minestre per festeggiare le nascite e i dolci per le puerpere), con i trapassati (il pranzo funebre). O quando puntuali timbri olfattivi segnalavano i tempi devozionali secondo un’ordinata sequenza comunicativa fra l’uomo e il Cielo come nel mese di maggio, dedicato alla Vergine Maria, che avvolgeva del delicato, sottile profumo delle spampanate rose millefoglie l’interno delle chiese, coinvolgendo l’olfatto anche dei devoti più distratti. Oppure quando i ritmi del desiderio venivano intonati alle sottigliezze dei messaggi olfattivi e diffusi su fazzoletti, pantofole, guanti, carta da lettere, ventagli[5]. O quando i calendarietti profumati, regalati dai barbieri ai clienti ad inizio del nuovo anno, costituivano l’inconfondibile allusione ad un sesso ammiccante e garbato. Oppure quando la concretezza pungente di odori indiscreti e screanzati segnalavano la presenza di mestieri cittadini o di specifiche botteghe artigianali: si pensi ai macellai, ai pescivendoli, ai formaggiai, ai pizzicagnoli, ai conciatori.
La capacità di orientamento dell’olfatto si è opacizzata con la modernità, parallelamente alla secolarizzazione della sfera dell’immaginario e all’intorpidimento della soglia dell’immaginazione. Il cosmo degli odori ha cominciato a vacillare e a registrare progressivamente la riduzione del numero dei propri interlocutori e degli iniziati alla decifrazione del suo linguaggio. Sempre più imbrigliato, l’olfatto oggi sembra soffrire di amnesia, sebbene vuoi l’industria, vuoi gli esperti di un marketing sempre più aggressivo si affannino a coinvolgerlo attraverso ogni espediente. La prima con gli sgradevoli fiati del suo sviluppo, i secondi ricorrendo ad espressioni tanto stravaganti e falsificanti quanto fissati su un presente senza storia. Per esempio, profumando di sandalo e vaniglia le solette delle scarpe da tennis e con aromi legnosi gli abitacoli delle vetture appena uscite dalla fabbrica; o per inibire nasi golosi, veicoli di obesità, arricchendo con profumi appetitosi prodotti poco sapidi e a basso contenuto calorico.
Sono molte, dunque, le proposte di persuasione olfattiva che la contemporaneità sta attivando per ampliare la frontiera del naso, raffinato esploratore delle cose. Tuttavia, qualunque possano essere i risultati di questa addomesticazione, appare chiaro che tali procedure non sono in grado di ri-produrre i messaggi di quella memoria olfattiva che consentiva, per esempio, di allacciare la fragranza di un fiore all’immagine di una persona o il profumo di un biscotto ad un’età trascorsa. Il motivo è semplice quanto evidente: perché tali procedure poggiano su percorsi artificiali, falsi, seriali. Vogliamo dire (utilizzando ancora la metafora dei colori) che la contemporaneità, avendo divorziato dal tempo della natura[6], ha imboccato la strada bicromatica del bianco e del nero olfattivo, ossia di unità monocordi, denaturate, antitetiche al vocabolario capricciosamente cromatico degli odori.
Non più, pertanto, odori chiari e odori scuri, filologicamente allusivi di un alfabeto culturale insaziabile che mescolava puro e impuro, pubblico e privato, mondano e ultramondano, netto e turpe, sano e malsano, decente e osceno, ma odori bianchi e odori neri, immobili, ingessati, indifferenti, anoressici. Non più, quindi, timbri olfattivi, complessi, marcatori di differenze ma proposte etero-dirette, agglutinanti, mute.
Va da sé: quanto asserito non significa rimpiangere il tempo ecologico che l’età industriale ha compromesso o, comunque, delimitato, ma solo allertare sulla circostanza che la comunicazione olfattiva, guidata dal business del mercato e scissa dalla storia culturale, può far finire l’olfatto in cassa integrazione, derubando così di un’ulteriore tessera sapienziale quell’incredibile prisma di stravaganti combinazioni che è la vita. Il naso, insomma, sta perdendo sempre più la sua capacità di orientare, assediato com’è sia dai suoi fratelli più alti (gli occhi), sia dalle mille astuzie di una società che ha eletto a suo simbolo Odisseo, eroe irrequieto, cinico, narcisista, esattamente come la realtà di cui è testimonial.
[1] V. Lanternari, Sensi in Enciclopedia Einaudi, vol.XII, 1981, p. 757
[2] A. Corbin, Storia sociale degli odori, Mondadori, Milano, 1983
[3] P. Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione, folclore, società, Mondadori, Milano, 1989, p.220
[4] Idem, p.219
[5] A proposito dei ventagli, va precisato che alcuni avevano stecche di legno odoroso, altri erano dotati di una scatolina nell’impugnatura per conservare cipria e belletto, e altri ancora custodivano nel rivetto un piccolo cilindro che conteneva profumo. Cfr. sull’argomento V.Accardo, I. Spedicato (a cura di), Diamoci delle arie. Ventagli dal 1880 al 1920, Vecchio Faggio, Editore, Chieti, 1995.
[6] P. Camporesi, op. cit.