Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di
parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi.
(G. Leopardi, Zibaldone, 16. Settem. 1832).
Le parole possono anche vivere una vita propria, nel campo della letteratura e dell’arte. Ma, nel parlare quotidiano, seguono quasi fatalmente il destino del concetto che ad esse si accompagna, dell’idea prevalente che essa evoca. Per questa ragione, oggi la parola vecchiaia vive una vita grama.
Un duro colpo le è stata assestato dal dilagare del consumismo, che ha modificato il concetto di durata dei beni. Un tempo, un’automobile diventata “vecchia” non prima di aver compiuto i quindici anni, ma aveva buone probabilità di diventare, senza scandalo, ancor più attempata. Un apparecchio telefonico diventava vecchio dopo decenni: tanti ne occorrevano per passare dalla manovella al disco per la composizione del numero, e da questo al sistema a tastiera. I mobili comprati per il matrimonio cominciavano a sembrare vecchi solo quando la coppia dei suoi titolari festeggiava le nozze d’oro. Poi gli oggetti hanno cominciato a diventare vecchi sempre più in fretta: i nuovi modelli uscivano a ritmo più accelerato squalificando i precedenti come démodé. Bisogna consumare tutto in fretta per comprare il prodotto nuovo. Ora non hanno neanche il tempo di invecchiare, perché vengono costruiti per durare poco: lo smartphone non invecchia: dopo tre anni (se va bene) semplicemente non funziona più.
Sull’onda dei mutamenti economici e sociali, la parola vecchio si è avviata tristemente a diventare epiteto negativo, espressione di qualcosa da condannare o da evitare. La politica che si vuol sostituire viene bollata come vecchia (e poco importa se, magari, quella “nuova” ripropone modelli ancora più vetusti), la scuola che non funziona è vecchia, vecchi sono i ponti, le strade, le ferrovie. Così “vecchio” diventa la parola magica che ci consente di evitare la fatica di analizzare ciò che non funziona, di elaborare i cambiamenti riflettendo e studiando, di interrogarci su modelli economici e sociali. La soluzione è sempre bella e pronta, senza faticare per cercarla: occorre qualcosa di “nuovo”.
Questo declino di una parola che pur ha avuto i suoi splendori (quando evocava saggezza, esperienza, assennatezza, venerabilità) e che è passata ad indicare negatività e imminente caducità, non poteva certo risparmiare il comportamento umano. Vecchiaia è allora diventata parola da esorcizzare, persino da negare. Ne fa fede il restauro continuo al quale molti di noi sottopongono il loro corpo, la reiterata affermazione che facciamo di “sentirci ancora giovani”, i vestimenti e gli accessori giovanili con i quali infarciamo le nostre età avanzate, diventando ora comici, ora patetici. Le rughe non sono più i solchi nei quali abbiamo inciso gli anni della nostra vita, il simbolo del nostro patrimonio esistenziale: diventano brutture da cancellare. Insomma, di fronte alla vecchiaia che avanza, la parola d’ordine è: negare, negare e ancora negare. Non ci riguarda.
Ancor più determinanti nella parabola discendente di questa parola sono stati i cambiamenti sociali, ovviamente connessi con quelli economici. Nella cultura contadina, l’anziano recitava un ruolo nella comunità e nella famiglia, poiché in esse vivevano diverse generazioni. Una tale convivenza era resa possibile, anzi necessaria, dalla mole del lavoro, che andava diviso. O dalla povertà, nella quale bisognava darsi una mano l’un l’altro. Oggi ciò non è più possibile. L’economia non sta più attorno e dentro la casa. Con gli attuali standard di benessere (che tornano però ad essere messi in discussione per un numero sempre maggiore di persone), le abitazioni non sono più tali da poter ospitare tante generazioni; è impensabile un solo bagno per 10 persone, mentre prima in molte case non ce n’era nemmeno uno: in città ce n’era uno solo per un’intera rampa di scale; in campagna altrettanto spesso era en plein air. Impensabile, anche, la promiscuità del dormire in tanti nella stessa stanza: è aumentata l’esigenza di riservatezza anche fra i membri della stessa famiglia.
Tutto questo ineluttabile cambiamento è stato pagato con l’allentarsi dei legami e delle trasmissioni di saperi fra le generazioni. E con il trasformare i vecchi in pesi morti. Di contro, è aumentata la lunghezza media della vita. Il che ha sparigliato il tradizionale rapporto di sinonimia tra vecchiaia e anzianità. Quest’ultima è diventata la fase in cui ci ingegniamo in tutti i modi per convincere noi stessi e gli altri di essere ancora giovani. Il termine vecchiaia viene limitato alla stagione ultimissima della vita. Con il curioso paradosso che l’allungamento della vita ha creato problemi nuovi. Come quello, ad esempio, di persone già anziane che si trovano a dover assistere la generazione precedente (quella dei “vecchi”). Sicché chi cominciava a pensare di essere nell’età in cui si comincia ad essere assistiti, si trova ad essere assistente a tempo pieno. Perché l’alternativa, davvero impensabile e forse disumana sarebbe di caricare su chi è giovane o in età matura il peso di dover assistere, allo stesso tempo, due generazioni precedenti.
Insomma, un bel rompicapo, che richiederebbe una riflessione accurata sulle nostre forme di convivenza, sull’articolazione dello stato sociale, sui sistemi economici che dovrebbero supportare cambiamenti così epocali della composizione delle società umane. Non potendo rottamare i “vecchi” umani con la facilità di uno smartphone o di un elettrodomestico, occorrerebbe darsi da fare perché a questa rottamazione non si arrivi, magari attraverso forme più edulcorate e all’apparenza “civili”. Ma l’impressione è che, anche verso questo problema, prevalga l’allegra spensieratezza con la quale assistiamo ormai a tutto: dalla terra divorata dalla plastica e dai rifiuti alle migrazioni che finiscono in tragedia. E così la neolingua, frutto anche di questa sventatezza, può tranquillamente confinare la parola vecchiaia in una zona di penombra da cui spira un’aura negativa.