Esce Io, mio figlio e la musica, il libro postumo del maestro Remo Vinciguerra, del quale ricordiamo qui la ricchezza umana e il mondo poetico, artistico, pedagogico, sentimentale e politico in senso lato.
È il suo ultimo libro e il primo pubblicato postumo.
Ha ragione il prefatore Silvio Feliciani nel dire che chi ha conosciuto Remo Vinciguerra, leggendolo, ne riascolta la voce.
A me – che ho avuto la fortuna di essergli allievo (in età matura) per più di tre anni e per oltre trenta amico fraterno – accade non solo di riascoltarne la voce, ma di rivederne lo sguardo e i gesti nel mentre annotava le idee musicali sul pentagramma, e le provava e riprovava al pianoforte con il piacere suo di farmene dono e mio di partecipare a un momento così prezioso per entrambi. Mi accade di ripensare al timbro inconfondibile della sua personalità giovialmente incline all’allegria, estroversa, creativa, ironica e profonda quanto leggera e al contempo venata di una sorta di malinconia che conferiva una particolare ricchezza allo stile compositivo in cui pariteticamente convivevano il cuore e la mente, il controllo razionale e il pathos della emotività senza la quale nessuna ispirazione artistica nasce.
Di una simile ricchezza sono ricolmi i suoi meravigliosi preludi intessuti di un cromatismo che attrae nel suo continuo trascolorare da un stato d’animo a un altro – qualche volta addirittura opposto – e allo stesso tempo fa riflettere pur senza calcare la mano sui toni seriosamente gravi, poiché un innato senso della misura pone al riparo da qualsiasi rischio di sprofondare in una insopportabile pesantezza o, peggio ancora, nella artificiosità astrusamente intellettualistica degli sperimentalismi di certa musica novecentesca ipercolta e infarcita di quel rigorismo logico fine a se stesso che lui tendeva a rifiutare; pur apprezzandone talora la grandezza.
Tendeva a rifiutarla perché, in quella musica esageratamente lucida fino alla esasperazione, vi scorgeva la morte di ogni spontaneità e di ogni schietta semplicità inventiva. Le quali, per converso, trovano la loro scaturigine in una personalità assetata di genuini rapporti con gli altri, di aprirsi dunque in maniera tale per cui la vita di ciascuno confluisca in quella altrui, e viceversa.
Il contrario, insomma, di quella musica tendente a divenire di difficile ascolto. E che, appunto per questo, a suo giudizio appariva dettata da aridità sentimentale, da una vera e propria crisi dissociativa dell’Io contemporaneo, rispetto a quello ancora allo stato nascente e trionfante in epoca romantica, quando la ascoltabilità assurgeva a valore di primaria importanza.
Tutto ciò gli derivava dal fermo convincimento che musica e amore fossero o dovessero essere pressoché sinonimi, entro una concezione positivamente improntata alla comunicabilità e alla utilità anche sociale dell’arte e del suo insegnamento.
È questo il caposaldo su cui poggia il mondo poetico, artistico, pedagogico, sentimentale e politico in senso lato di Remo Vinciguerra.
Un mondo di cui la musica è il vitale principio costitutivo, come ne fosse l’anima ossia il respiro stesso, il ritmo scandito da suono e silenzio, tempo e movimento: armonia che tiene insieme – uniti e distinti – tutti i diversi elementi della composizione, perfino se opposti. Perché, proprio in quanto opposti, esaltano, con il loro essere fra di essi dissonanti, una più ricca e articolatissima consonanza.
Un’autentica armonia, infatti, non può dirsi tale se non in virtù dei contrasti dialettici che la innervano per contrappunto polifonico. Perciò la musica spesso appare quale regina delle arti, come la matematica quale regina delle scienze. Non a caso Bach – che sembra la musica in persona – viene considerato il più matematico dei musicisti.
Un musicista influenzato dal pensiero matematico e filosofico di Leibniz, che di armonia se ne intendeva a tal punto da farne un sistema dell’universo e anche dei rapporti umani, nonché di risoluzione delle controversie financo di ordine diplomatico.
Bach è una figura essenziale in questo ultimo libro di Remo Vinciguerra.
Lo era pure in Una fantastica storia della musica, raccontata ai ragazzi. Però qui risulta, non solo oltremodo importante per l’evoluzione della polifonia, ma per l’idea stessa di armonia persino in senso psicosomatico, sociale e democratico. Tant’è che nel libro essa diventa il modello di come i conflitti di ogni genere possano convivere armonicamente sia entro la sfera psicofisica dei singoli e sia in quella sociale. Ciascuna individualità infatti, unita e distinta fra le moltissime altre, potrebbe contribuire a una comunità con-sonante: al pari di una grande orchestra in cui ognuno interpreta a perfezione il suo spartito entro la variegata pluralità dei suoni, delle pause, dei toni, dei timbri vocali e strumentali. Talché ogni componente è parte essenziale di un intero organismo.
Se non di una vera e propria utopia, si tratta del senso (sia implicito sia esplicito) che anima l’insieme delle opere scritte e tutta una vita – artistica e da insegnante – protesa alla elaborazione, non solo di un metodo pianistico, ma dei modi di combinare stili musicali diversissimi fra loro al fine di appassionare i giovani a vivere e amare nel segno della musica in tutte le sue forme, senza essere maniacalmente schiavi di una soltanto, sol perché la massa ne è invasata.
Io, mio figlio e la musica è un piccolo libro, magnificamente commentato passo dopo passo dalla pianista Mariateresa Gatti, illustrato da Arianna Lazzari e corredato da cinquantacinque brani musicali ascoltabili dalla playlist online, accedendovi tramite un QR CODE.
Un piccolo libro grande e prezioso in cui il menestrello narra di un angelo che, oltrepassato il confine tra il Paradiso e la Terra, in un attimo fuggente raccoglie la biblica mela della creatività e, siccome desidera diventare un menestrello di terra, canta a squarciagola riempiendo il cielo di suoni con una maestria tale da fare invidia a Dio. Perciò, questo angelo di nome Angelo si fa chiamare Adamo, l’iniziatore della storia della musica. E si chiamerà Adamo ciascuno dei grandi maestri che – tra rispetto del passato e trasgressione delle vecchie regole – la rinnoveranno lungo i secoli. Perché, essendo l’impasto di una memoria che si spinge indietro fino all’alba dei tempi, ma pure del desiderio di aprire più vasti orizzonti, ciascuno di loro (ma anche ognuno di noi) ricomincia sempre d’accapo, come fosse il primo uomo – direbbe Albert Camus.
E questa meravigliosa storia vien raccontata in modo tanto elementare quanto profondo, attraverso un dialogo – in tono favolistico e ironico – tra il figlio adolescente e suo padre musicista. Il quale, man mano che educazione sentimentale e narrazione procedono con l’ausilio di brani oltremodo toccanti, vien preso dalla nostalgia del Paradiso. E mentre il menestrello va cantando Del doman non v’è certezza sente l’appressarsi del morire per davvero e del volar via in cielo sulle ali di tutta la bellissima musica ascoltata insieme al figlio che, quando verrà il momento, gli suonerà al pianoforte il preludio più amato: Acqua marina. Per ricordarlo con quello stesso amore che da lui ha ricevuto.
Leggendo il finale dell’ultimo suo libro, mi accade di rivedere la cattedrale di Lanciano gremita di giovani venuti al suo funerale da ogni parte, anche da Verona ove ogni anno si svolge il concorso pianistico internazionale intitolato al Maestro Remo Vinciguerra. La loro foltissima presenza è stato l’omaggio più bello a una vita dedicata alla musica e, come direbbe il suo amato Johann Sebastian Bach: «Alla gioventù studiosa e musicale, e a coloro che siano già versati nella musica» o che abbiano l’ardente desiderio di accostarvisi.