Ogni città, come ogni individuo, ha una sua personalità che la distingue dalle altre. Per dirla con Franco Cassano, ci sono città altere e città dimesse, città affaccendate e città pigre, città-palcoscenico che si conoscono anche senza averle visitate e città velate accessibili solo a pochi, città esuberanti che parlano molte lingue e città-conchiglie che non danno confidenza, città arroccate in cui il tempo gira al largo e città esuberanti, proiettate nel futuro che vogliono farsi conoscere, suonano il clacson e chiedono strada (Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, Il Mulino, 2001, pp.76-77). Pescara appartiene a quest’ultima categoria. Questo suo tratto individualizzante non è un’espressione dell’oggi. In un almanacco regionale del 1925, per esempio, il comune di Castellammare Adriatico – che due anni dopo formerà con quello di Pescara-Porta Nuova un unico agglomerato urbano e una stessa unità amministrativa (peraltro elevata a provincia) – viene descritto come «una città all’americana, con palazzi eleganti sui margini di strade ampie e pianeggianti, con ridenti giardini ombreggiati da palmizi. La città è in continuo sviluppo edilizio, destinata ad un brillante avvenire» (U. Postiglione, La terra d’Abruzzo e la sua gente. Collezione di Almanacchi regionali diretta dal prof. R. Almagià, Paravia, Torino, 1925). Nel 1956 anche Guido Piovene, nel suo inventario di “cose italiane” allestito per incarico della R.A.I, definì Pescara nel medesimo modo: priva di un vero centro, tagliata dalla ferrovia in tutta la sua lunghezza, «ribollente, confusa, in cui uomini e gruppi affluiscono, si addizionano, si accavallano come onde» e, come Los Angeles, attratta dal mare lungo cui si sviluppa e può espandersi «senza limite per addizioni successive […]» (Viaggio in Italia, Mondadori, 1957, p.420). In questa città, continua Piovene, in cui affluiscono cento rivoli di abruzzesi che si mescolano insieme e uniscono a gente “altra”, di provenienza esterna, «si sta formando un nuovo carattere umano, un tipo d’abruzzese portato a speculare, ambizioso di far danaro, amante di comodità moderne» (p.421).
Tuttavia, questi tratti singolari di Pescara, così diversi soprattutto se paragonati all’impianto e alla storia delle sue consorelle-capoluogo di provincia, le hanno giovato solo in parte. Se per un verso, infatti, ne hanno confermato la vitalità, la vivacità, il dinamismo, per un altro verso hanno contribuito a fissarla in improprie, incriticate, categoriche scorciatoie valutative. Per esempio, lo stereotipo di città senza radici, “senza rughe” quasi un’espressione delle città del Far West (per tornare a Piovene) ha allacciato Pescara all’immagine di uno spazio aperto, privo di limiti, “senza storia” che si può attraversare senza inciampi e, all’occorrenza, anche strattonare, ferire, sfregiare. E, infatti, non servono particolari alchimie concettuali per sostenere che la logica del profitto e della speculazione ha trovato qui pascolo fertile e abbondante.
Ma, ovviamente, Pescara è altro da tale vulgata. Non è “nata” da una fatalità: ha radici profonde esattamente come dimostrano gli articolati saggi che compongono questo accurato volume. Un volume che, integrando e sviluppando gli atti del Convegno “Riscoprire la città scomparsa” indetto dalla Sezione di “Italia Nostra” di Pescara, ne smantella le letture inappropriate, frettolose, assertive che ha collezionato nel tempo, o meglio ribalta quelle “opinioni senza giudizio”, come diceva Voltaire, che danno voce ad abbagli, equivoci, luoghi comuni, pensieri in compendio.
Tuttavia, prima di entrare in qualche dato di dettaglio, corre l’obbligo di precisare che il tema di questo libro, riscoprire la mappa identitaria di una città che pare aver cancellato nel tempo ogni residua testimonianza del proprio passato, non poteva che richiedere il coinvolgimento di più competenze disciplinari. Ragionare sulla storia di una città vuol dire, infatti, tante cose: in primo luogo, fondere insieme saperi multipli, corali, ad ampio spettro per disvelare, come in questo caso, il paesaggio remoto di un territorio che ha lasciato di sé labilissime tracce.
Date queste premesse, l’incipit di questo viaggio nel tempo non poteva che essere affidato alle ricerche e ai metodi dell’archeologia e della storia. Pertanto, i primi due saggi del volume, a firma di Gabriele Iaculli e Andrea R. Staffa guidano nella conoscenza delle più importanti vicende di questa città: dagli insediamenti protostorici e italici all’abitato romano di Ostia Aterni e alla imponente fortezza spagnola cinquecentesca. Informano sull’esatta ubicazione del centro antico e sulle progressive trasformazioni del tessuto insediativo; raccontano la città medievale e la costruzione del sistema difensivo che inglobava al suo interno il sito dell’abitato antico e altomedievale; sostano sulle articolate vicende legate al suo porto e non mancano di informare anche sulle manomissioni, le demolizioni, le cancellazioni che vennero inferte alla città in particolare fra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra.
Sull’apparato difensivo di Pescara e, in dettaglio, sulla sua tri-secolare fortezza indugiano invece le dense pagine a firma di Adriano Ghisetti Giavarina. La loro lettura avvicina agli studi progettuali, agli aggiornamenti e agli ammodernamenti che la maestosa fortezza subì negli anni, alla descrizione dei suoi possenti bastioni, agli eventi bellici e agli assedi che la coinvolsero nel tempo e alla sua dismissione a seguito della unificazione dell’Italia in un unico regno. Con il regio decreto del 30 dicembre 1866 Vittorio Emanuele II sancì la radiazione della piazzaforte di Pescara dall’elenco delle fortificazioni, dando inizio al suo smantellamento e a una delle maggiori perdite storiche della città.
Attraverso il testo di Giovanni Damiani si conosce un’altra pagina maltrattata di Pescara: la storia naturale del sito che la ospita. Infatti il suo sviluppo, in particolare quello più recente, ha vistosamente danneggiato tre sue grandi risorse naturali: l’ambiente fluviale, il patrimonio arboreo, il mare. Il suo fiume (“affidabile” ed “educato”, come lo definisce l’Autore) dalle acque fredde, ben ossigenate e veloci, che non conosce periodi di magra spinta, né la frequenza di piene eccezionali oggi non è più navigabile, incanalato com’è in condotte per la produzione dell’energia idroelettrica con dighe di sbarramento: in passato, verosimilmente, lo era fino a Popoli. Anche il mare non gode di buona salute se si tiene in conto «la caduta della biodiversità, i fenomeni erosivi della spiaggia e la “fanghizzazione” del porto e del litorale marino provocata dal fiume» (p.91). Del pari, la città è stata decurtata del fitto patrimonio arboreo della pianura e delle colline e, in particolare, della pineta costiera, una foresta in gran parte impenetrabile da quanto è dato sapere da testimonianze e documenti d’archivio.
Il saggio di Piero Ferretti apre il sipario su una Pescara in evoluzione che, negli anni Novanta dell’Ottocento, mira a valorizzare l’affaccio al mare (peraltro non agevole, vuoi per la presenza di luoghi malsani e paludosi, vuoi per la distanza della spiaggia dal centro della città) e alla prospettiva dello sviluppo turistico-balneare. Oggetto di queste pagine è la lettura degli intenti progettuali e delle tappe di costruzione del rione residenziale “Pineta”, un quartiere immerso nel verde, dotato di attrezzature di servizio alla residenza, allo sport, alla socialità, allo svago e all’intrattenimento della borghesia locale (il Kursaal). Ma altrettanto attenta è la lettura delle rivisitazioni apportate all’innovativo progetto originario redatto da Antonino Liberi, il suo ridimensionamento nella fase attuativa nonché l’impoverimento di importanti aspetti programmatici. Pur in presenza di tali tagli, precisa l’Autore, il quartiere rappresenta comunque «una rara testimonianza di espansione urbana pianificata, una significativa espressione della cultura urbanistica dell’età giolittiana e un luogo in cui ancora oggi la città ritrova se stessa» (p.122).
Le interessanti pagine di Ippolita Ranù ripercorrono, invece, la linea d’immersione verso il mare di Castellammare, soffermandosi sulle tappe che ne trasformarono l’impianto: da insediamento abitativo sparso a produzione agricola o a carattere residenziale dei grandi proprietari terrieri a città a vocazione balneare. In particolare, il saggio indugia su quelle singolari dimore adriatiche, «premessa alla “modernità” tra città e campagna coltivata» (p.125) dal linguaggio fortemente espressivo, nelle quali, per esempio, è ricorrente la presenza del torrino laterale o sovrapposto che, precisa l’Autrice, rinvia alla storia della casa rurale (si pensi, appunto, alle torri colombaie dell’architettura rurale abruzzese). Purtroppo, la città non conserva che debolissime tracce di questa equilibrata tipologia abitativa: l’urbanizzazione della riviera ha cancellato insieme con questi segni costruttivi tra città e campagna verso la costa anche «quell’idea di città adriatica misurata e in linea di rapporto con il mare» (p.127).
Il saggio di Aldo Giorgio Pezzi informa sulle normative e sulla disciplina vincolistica pensate per tutelare l’edilizia storica della città e, parallelamente, sulle difficoltà in cui inciampano gli interventi progettati per la conservazione delle opere di pregio. A dispetto della stretta relazione e dell’azione unitaria che dovrebbe intercorrere tra livello statale e livello territoriale nell’azione di tutela dei beni paesaggistici, Pescara non sembra disporre di attenti tutori sul tema. Non ne ha disposto in passato (ne sono prova l’abbattimento della fortezza borbonica nella seconda metà dell’Ottocento e, nel secolo successivo, i villini liberty della riviera, l’edilizia ottocentesca, quella razionalista del primo Novecento, nonché alcune espressioni di qualità dell’architettura post-bellica) e non ne dispone nel presente. Quantunque non manchino norme al riguardo, il rinnovamento edilizio incessante a fini prevalentemente speculativi non pare incontrare ostacoli alle sue espressioni, anche (e non secondariamente) a motivo del fatto che la collettività locale non sembra aver consapevolezza che la qualità della vita poggia invariabilmente sulla tutela del territorio e della sua storia.
Le propositive pagine di Paquale Tunzi, studioso di mappe, carteggi, documenti archivistici, iconografie storiche, sono pensate per porre un argine alle smemoratezze sul passato di Pescara. Al fine di mantenerne vivi gli elementi distintivi ed identificativi – e in attesa dell’allestimento di un Museo cittadino – l’Autore propone la necessità di approntarne uno virtuale attraverso un sito web, La Casa di Mnemosine. Un tale sito, costituito da materiali eterogenei (fotografie, disegni, rilievi, modelli 3D, mappe, documenti, testi, filmati, dati numerici, panorami Quicktime vr, perfino un GIS sul centro storico) potrebbe vicariare l’assenza di uno spazio museale reale e raccordare in sistema le attività che convergono sulla custodia e la valorizzazione del patrimonio, materiale e immateriale della città.
Il bel saggio di Domenico Potenza mette a tema i processi di trasformazione degli assetti originari di Pescara, non senza ometterne le criticità: per esempio, la sua crescita «per successive addizioni di parti e saturazioni di vuoti» (p.154) e la sua trasformazione per segmenti che denunciano «la mancanza di un progetto urbano, capace di mettere a reddito quel sistema di connettività tra le parti di cui è formata la città» (p. 158). Il suo carattere di città frammentata, “a pezzi”, oscillante fra ecosistemi plurimi e discontinui richiede (richiederebbe), dunque, un vistoso cambio di rotta: ovvero proposte progettuali capaci di interpretare la sua trasformazione attraverso «un sistema unitario di spazi e non come un insieme distinto di parti, come complessità integrata di eventi e non solo come semplice somma di avvenimenti» (p.159). Pescara ha molte “buone” carte da giocare per una concreta azione di riconversione del suo territorio in termini di qualità superiore, ma deve imparare a superare gli interessi di parte che finora ne hanno accompagnato la trasformazione (p.160) Ovvero, e detto altrimenti, avrebbe bisogno di quella moralità sociale di cui fa difetto vistosamente e (non da oggi) il nostro Paese.
Dunque, guardare solo avanti senza disporre di un’ottica progettuale e sistemica non sempre si rivela costruttivo. A Pescara la scelta di aprirsi a un “nuovo” incapace di allacciare in una sintesi funzionale il passato al presente ha richiesto un prezzo molto altro da pagare: la cancellazione della sua storia e il disordine del suo presente. Le pagine conclusive di questo denso e interessante volume, a firma del suo curatore Massimo Palladini, si impegnano a restituire a Pescara la sua storia e il suo passato o, almeno, la consapevolezza del suo passato e della sua storia. La lettura che l’Autore fa della città dal periodo post-unitario ad oggi documenta con dovizia di dettagli che, se si fosse voluto, il tessuto urbano avrebbe potuto far convivere anche qui (come altrove peraltro avvenuto) il passato con il presente in un unicum razionale e produttivo senza compromettere lo sviluppo ordinato del nuovo. Ma così non è stato. Tuttavia, proprio la coscienza di ciò che non è accaduto induce a guardare avanti. E infatti, numerose pagine di questo saggio, denso di stimoli, insistono su una serie di articolate proposte o, meglio, di terapie pertinenti a tutelare le tracce della città storica nella prospettiva di una riorganizzazione urbana congrua a restituirla ai suoi cittadini, almeno nella percezione di ciò che stata. In particolare l’autore esamina i recenti ritrovamenti archeologici in riva nord del fiume, nell’area che fu l’antico comparto della fortezza destinato alla guarnigione. La densa stratificazione che lì affiora già dai primi scavi indica la prospettiva di un progetto ampio, archeologico ed urbanistico insieme, per la parte di città tra i due ponti principali, che la apra al fiume con un parco ed alcune importanti tracce della sua storia.
Quanto fin qui sommariamente commentato induce a ritenere che Pescara non appartiene ancora alla categoria delle città dimissionarie, ossia all’ordine di quelle tipologie urbane che –abdicando (avendo abdicato) al compito di direzione e di guida dello sviluppo socio-economico, civile, culturale e formativo del proprio territorio – si trasformano progressivamente in spazi abitativi e lavorativi meramente anagrafici e formali, ma è sul punto di varcarne l’ingresso. A meno che non decida di cambiare passo, questo rischio è verosimile, e costituirebbe un grave danno, perché nelle città dimissionarie si abita ma non si vive.