Terza e ultima parte delle riflessioni sulla pandemia attraverso film di Visconti, Bergman ed Herzog. Il demone dell'infinito e l'insofferenza del limite. Il nuovo vampiro del mondo.
«Sono stato sedotto più dalla pittura che dal cinema e ancor più dalla musica che dalla pittura» – dichiara Werner Herzog.
Fata Morgana (1971) ne è la conferma. Le carrellate sul deserto, ora accelerate ora lente, formano quadri sensuali di dune sabbiose che si stemperano in quasi irreali sinuosità a cui il Kyrie della mozartiana Messa dell’Incoronazione conferisce sostanza spirituale.
Risultano perciò estensibili anche al cinema le riflessioni di Vasilij Kandinskij: «L’affinità tra musica e pittura è il punto di partenza della via per la quale la pittura, con l’aiuto dei propri mezzi, si andrà sviluppando fino a diventare arte in senso astratto».
Nel film, al piano linguistico-espressivo si intreccia quello della invenzione del reale. Il regista, infatti, lo dice chiaramente: «Il deserto è il sogno di un paesaggio […] Al posto della verità “vera”, ne metto un’altra, intensificata, potenziata. In questo mi aiuta la musica». Così l’udibile e il visibile narrano di un tempo in cui «il mondo era sospeso nell’infinito, immerso in un profondo silenzio e vagabondava per gli spazi siderali, solitario e deserto. Non esistevano uomini, animali… C’era soltanto il cielo».
Fata Morgana è un inno all’adorazione del mondo, attraverso immagini talmente estatiche da indurre il riguardante a uscire dalla percezione ordinaria e vedere, con altri occhi, il paesaggio desertico: o senza tracce di civiltà; o estraneo a chi vi transita; o come luogo che trasforma le umane vestigia in relitti e reietti.
La voce fuori campo – in contrappunto al montaggio visivo –, la forza evocativa o dissonante delle musiche e dei silenzi mutano il reale in illusorio, oppure il sogno in brusco risveglio. Straniante, ironico, disperato come il rivelarsi di ciò che poteva essere ma è impossibile che sia: un mondo che la nostra civiltà ha irrimediabilmente perduto, o che parla solo agli emarginati, poiché questi ancora convivono con ciò che ai “normali” si presenta, invece, del tutto ostile. A costoro la “fata morgana” – tra miraggio, sogno e riflessione – si rivolge affinché trasmutino radicalmente il vedere-sentire e comprendano il fallimento della creazione.
Con analogo intento Herzog realizza Apocalisse nel deserto (1992). Filmando i pozzi petroliferi in fiamme nel Kuwait (dopo la prima guerra contro l’Iraq) e oltrepassando ciò che in genere vien mostrato dai mass media, non solo denuncia un crimine di guerra, ma prefigura come: «Al pari della creazione, anche la morte del sistema solare avverrà con maestoso splendore».
Poi, con altrettanta potenza visionaria, conclude la ideale “trilogia della terra” con L’ignoto spazio profondo (2005), pervaso dal medesimo sentimento di irrevocabilità del giorno del giudizio.
Il vedere estatico e il rivelarsi della dimensione epifanica animano i suoi film. Documentari o di finzione che siano, tutti insieme formano un unico film, mosso da un’autentica ricerca spirituale. E i personaggi, quasi sempre emarginati, sono ribelli: disperati e solitari. Sofferenti sì, ma che continuano senza tregua a lottare – contando unicamente sulle proprie forze – per dare un significato all’esistenza. Del resto, è ciò che caratterizza pure la vita e l’opera di Werner Herzog. Che non cerca storie da raccontare; sono esse ad “assalirlo”, per essere narrate con inaudita urgenza espressiva, musicale e pittorica.
La pittura cui egli si ispira (per i film ambientati nella Germania del XIX secolo) è quella dei paesaggi interiori di Caspar David Friedrich. Oppure quella fiamminga di Hercules Seghers (ammirato da Rembrandt) per quei suoi paesaggi che rinviano a stati mentali. Per gli interni si ispira soprattutto a Johannes Vermeer, poiché questi scorge nelle cose più comuni un mondo incredibile e di inesauribile bellezza: permeata di delicati e luminosi accordi di colori nonché di calibrate strutture spaziali. Non a caso sceglie Delft (dove è nato e morto il grande pittore olandese) per figurare la città tedesca di Wismar. Ma non si tratta solo di un omaggio alla pittura fiamminga. In Delft, il regista ritrova – più che nelle odierne città tedesche – quei caratteri degli interni, come pure degli esterni, delle nordiche città della Germania che ha in mente, quale ambientazione ideale di Nosferatu, il principe della notte (1979).
Per lui, da un lato, è fondamentale il rapporto fra personaggi, vicende narrate e paesaggio (urbano o naturale che sia); dall’altro, tutti i suoi film sono tedeschi. Pure Aguirre, furore di Dio (1972) – nonostante abbia per protagonisti degli avventurieri spagnoli in Sud America nel XVI secolo – presenta una fortissima impronta tedesca, segnata dai sogni o dai deliri di gloria e d’avventura. Tuttavia, quelli propriamente “tedeschi” sono: L’enigma di Kaspar Hauser, Cuore di vetro, Nosferatu, Woyzeck e Invincibile (ambientato, quest’ultimo, in una Germania già quasi hitleriana). In essi vi è la cifra poetica del regista: il “segreto” della sua originalità. Le cui radici affondano nell’infanzia vissuta fra le macerie della Seconda guerra mondiale e, per un certo periodo, come degente in ospedale, ove trascorreva il tempo giocando con un filo di lana della coperta. Lungo il quale gli sembrava si snodassero storie fantastiche entro cui le macerie degli edifici si trasformavano in teatri di grandi avventure. In viaggi immaginari che ben presto si sarebbero mutati in viaggi reali sino ai confini del mondo, in cerca di un luogo tanto ideale quanto utopico; in cerca, soprattutto, di quel che sfugge allo sguardo ordinario: il sublime. Che ci oltrepassa ma, al contempo, dimora nella interiorità nostra allorquando – bellissimo – traluce nella sua straordinarietà. Perché l’armonia profonda o la bellezza, invece che all’estetica, attiene all’intima verità delle cose. Alla loro essenza: inseguita sempre e mai raggiunta.
Ѐ questa sete di assoluto la dominante nel cinema di Herzog, nel suo sguardo intriso di romanticismo tedesco e sospinto dal demone dell’infinito; dalla insofferenza del limite o della realtà ordinaria. D’altra parte, cos’è mai la romantica sehnsucht, se non desiderio di desiderio: un vagare inquieto verso un non so che di irraggiungibile e illusorio, o verso la perduta armonia originaria.
Diversamente dal viaggiatore illuminista – interessato ai costumi e alle istituzioni dei popoli stranieri –, il viandante di Hӧlderlin e il pellegrino della notte di Novalis, benché fra di essi opposti, sono accomunati dalla medesima erranza. Quella figurata nei quadri di Friedrich e di Füssli, in cui prevalgono il paesaggio interiore e il sogno. A queste fonti attinge il cinema di Herzog, in cui immagini e suoni vibrano entro un simbiotico rapporto esaltato dalla musica – l’arte romantica per eccellenza – intesa soprattutto quale melodia infinita. Magari rivisitata in chiave novecentesca, ma riconfermandone la scaturigine romantica. Ѐ la cosiddetta musica cosmica. Quella dei Popol Vuh: ipnotica, estatica, esoterica, tantrica e trascinatrice nello spazio-tempo interiore.
Dal fecondo sodalizio, in alcuni film, tra Florian Fricke (leader del gruppo) e il regista, origina una potente combinazione sonoro-visiva. La quale, però, non diviene amalgama indistinto, perché Herzog non intende essere un epigono del tardo romanticismo, ben oltre un secolo dopo. Del sentire romantico egli è sia il cantore sia il critico poiché, mentre ne raccoglie l’essenza, se ne distanzia anche con ironia, specialmente in Nosferatu ove si ricollega alla lezione dei cineasti espressionisti degli Anni Venti, di Friedrich Wilhelm Murnau soprattutto. E, nello stesso tempo, sa che le storie di vampiri ricompaiono dopo le rivoluzioni fallite e sono alimentate dalla ossessiva ricerca di nuove immagini in cui la realtà diviene talmente irreale da farsi visionaria o quasi in trance – se rafforzata (a esempio) da una musica come quella dei Popol Vuh. Infatti, nel film, Jonathan si addentra dove il mondo diventa sogno e il sogno diventa mondo. E per Lucy la fede è quella sorprendente facoltà che consente di credere a cose che sappiamo non essere vere; ma che lei percepisce per presentimento visionario appunto. Sin dall’inizio sogna una fila di corpi mummificati: presagisce quel che sta per avvenire.
Né vivo né morto, Nosferatu è un non-estinto – inquietante. Angoscioso, perché razionalmente inafferrabile nonché inconcepibile per le leggi naturali. Succhiare il sangue poi (dell’altro sesso soprattutto) assomiglia allo sfinimento erotico, che si ripete e mai termina.
Il Vampiro “vive” di notte, quando il rassicurante ordine razionale e sociale vien meno. Nella sua fantasmatica figura s’adombrano tutte le paure più ataviche, ma pure il simbolo di un terrifico demone sociale e politico, come sarà quello di Hitler – secondo l’interpretazione che Lotte Eisner dà del Nosferatu (1922) di Murnau. A cui Herzog si ispira, trasformandone però molte parti e soprattutto quel lieto fine che esorcizzava i timori della Repubblica di Weimar.
Dracula – per Herzog – è la diversità portata all’estremo, come sono diversi Aguirre, Stroszek, Kaspar Hauser, Hias, Woyzeck e altri memorabili personaggi dei suoi film. Pure Jonathan, lungo la strada per giungere dal Vampiro, si ritrova a contatto con i diversi: gli zingari, irregolari per definizione. I quali, più assennati di lui, cercano in tutti i modi di dissuaderlo da un simile incontro funesto.
Nosferatu soffre per l’impossibilità di morire. Fra esistere e non esistere, si trascina lungo i secoli con un tale bisogno d’amore che appena vede il ritratto di Lucy, tra le carte di Jonathan, se ne invaghisce e subito firma il contratto per l’acquisto della casa di Wismar, alla cui volta parte immediatamente; ma non prima di aver rinchiuso Jonathan nel castello.
Questo mercante immobiliarista vi era giunto, dopo un faticosissimo viaggio a cavallo fino in Transilvania, solo per avidità economica, componente essenziale dell’ambizione borghese. Ma era partito – incurante dei foschi presagi di sua moglie – anche per la smania di uscire dal quotidiano ripercorrere sempre le medesime strade della sua città; per avventurarsi, insomma, verso l’ignoto. Che è ciò che contraddistingue l’individuo moderno: assetato di guadagno e di infinito, o di desiderio di desiderio senza fine. Il che fa da preludio pure all’odierno turismo globale di massa di cui l’avanguardia romantica è la precondizione.
A Jonathan, per giungere alla dimora di Dracula – che all’imbrunire e dal basso sembra solo il rudere di un castello –, tocca salire a Passo Borgo; ascendere sempre fra torrenti, cascate, boschi e rocce. Finché, entrandovi, incontra il fantasma della nobiltà, il simbolo della classe sociale precedente alla propria. Il conte impersona, non solo colui che gli contende l’amore di Lucy, ma anche una carica erotica irrefrenabile, la più ancestrale che vi sia: la congiunzione di Eros e Thanatos.
Il viaggio di ritorno è la corsa di entrambi verso Wismar e verso Lucy. L’uno, a bordo di un veliero, per fiume e per mare. L’altro, via terra, passa dal primevo dei boschi, delle gole fra i monti, alla civilizzata pianura nord europea con i mulini a vento che si specchiano nei canali. E mentre l’uno vi porta le bare, i topi e la peste, l’altro vi giunge ormai incosciente di tutto; nulla più riconosce, nemmeno sua moglie. In questa sorta di nemesi storica, la vendetta postuma della nobiltà (non molto diversamente da quand’essa era viva e vegeta) consiste nel succhiare il sangue della opulenta città borghese e nel riprecipitarla – con la peste – nella follia e nel caos. Democrazia, razionalità, scienza si svuotano di senso al cospetto di un male contro cui tutte le costruzioni borghesi nulla possono.
Solo la potenza della femminilità potrebbe debellarlo. Lucy istintivamente sa quanto, nella libidinosa sete di sangue e d’amore di Nosferatu, vi sia anche la causa che lo conduce alla morte. Perciò lei, con braccia avvolgenti, lo attira nell’amplesso. Così in lui il piacere e la morte divengono tutt’uno: Eros lo spinge verso Thanatos che lo possiede.
Anche Lucy ne è travolta. Muore, però, con un accenno di sorriso sul volto.
Nel frattempo lo spirito del Nosferatu si era già trasferito in Jonathan, a cui il conte aveva succhiato il sangue durante le notti al castello.
Estinta l’aristocrazia, la borghesia le succede nel ruolo storico del dominio.
Il mercante, con piglio deciso, balza fuori dal recinto di ostie consacrate e di tutti i rimedi esoterici che lo tenevano a freno; ordina alla servitù di sellargli il cavallo, perché ora: «C’è molto da fare» – dice, sbrigativo e minaccioso.
Indi si lancia, terribile, al galoppo per la desertica superficie terrestre verso e oltre l’immenso orizzonte. Ormai è la borghesia – il sistema capitalistico – il vampiro del mondo: la sua nuova religione. Il Sanctus della Messa solenne di Santa Cecilia, di Charles Gounod, ne rafforza il galoppare impetuoso.
Questa nuova religione è figlia della corruzione della sacralità primigenia.
La lunga sequenza dell’ascesa di Jonathan verso il castello di Nosferatu, non a caso, ha per colonna musicale il Preludio de L’oro del Reno: una vera e propria “esperienza sacrale”, secondo Wagner. Infatti il leitmotiv e la melodia infinita (lo scorrere di ogni nota, senza che se ne percepisca la fine, entro il continuo mutamento) evocano l’originario stato di grazia della natura incontaminata. Ma quell’Oro – custodito dalle Figlie del Reno – è stato convertito in denaro dagli spietati dominatori del mondo, i capitalisti, capaci di trasformare tutto in bene pecuniario e criminogeno. Perciò l’autore, non L’anello del Nibelungo, ma Ladrocinio avrebbe voluto intitolare la sua celebre tetralogia, con la quale intendeva scagliarsi contro la cultura e l’educazione borghese.
Tuttavia Wagner, invece del comunismo, immagina un ritorno a madre natura, attraverso la purezza dell’amore che redime il mondo da avidità e prepotenza. Più concretamente: il ritorno all’economia corporativa medioevale e alla monarchia assoluta.
Il nazionalsocialismo – secondo Thomas Mann – è la conseguenza tragica di questa presunta “innocenza mitica” in campo politico, caratteristica dello spirito tedesco che la sua musica esalta.
Werner Herzog in Nosferatu, pur utilizzando la musica wagneriana, non sposa certo una simile concezione. Anzi, solo rifiutandone gli esiti politici, può meglio rispondere alla assillante domanda sul proprio Paese: «Perché mai, nel XX secolo, la civilissima Germania è stata la causa delle due più grandi catastrofi dell’umanità?».
La risposta sta nel personaggio di Jonathan.
Nel suo viaggio di andata, ritorno e ripartenza vi è la stilizzazione del percorso reale e metaforico della storia tedesca – già figurata peraltro, attraverso le visioni di Hias, in Cuore di vetro (1976). Una storia che coincide quasi unicamente con quella del capitalismo perché in Germania, prima di esso, vi sono soltanto il Medioevo e una mitica purezza primigenia verso cui ritornare.
Al regista però non interessa realizzare un film “storico”. E del wagnerismo riprende l’iniziale impeto romantico-rivoluzionario in chiave antiborghese, inserendolo tuttavia in un’atmosfera visionaria, come in quasi tutte le sue opere. Infatti nel galoppare finale di Jonathan vi è la “profezia” del dilagare irrefrenabile del capitalismo (non solo tedesco) per il mondo intero, dissacrando e scempiando culture e luoghi diversi. Ma soprattutto vi è un dilagare – di ritorno – della peste che proprio dallo scempio d’ogni cosa deriva. Di ciò la scena della piazza di Delft (Wismar), infestata dai topi, offre una visione di straordinaria potenza apocalittica. La folla, agghindata a festa, banchetta fra pecore e maiali; tra moribondi, sporcizia, escrementi, bare e topi dappertutto, perfino sui tavoli. Continua a far baldoria come sempre – allora come oggi.
Intanto, sincrono con l’inquadratura dall’alto, si leva Tsintskaro, uno struggente canto tradizionale georgiano intonato dal gruppo vocale Gordela.
La miserabile grandezza di un’intera civiltà si esprime in questa ultima cena degli appestati, danzanti nell’abisso del perenne ripetersi di creazione-distruzione: che ognora avviene con maestoso splendore.
VIDEO – La scena della peste:
https://www.youtube.com/watch?v=4iyr2rhbXNQ