di ROBERTO LEOMBRONI
La rete è una realtà. Dalla quale non si può prescindere. Come tutte le grandi innovazioni tecnologiche che hanno cambiato l’esistenza dell’uomo (dal fuoco all’elettricità, dal telefono al cinema…) essa sta modificando, ormai da parecchi anni, i nostri modi di vivere, di comunicare e di stabilire relazioni con gli altri. Siamo quasi sicuramente di fronte a una nuova “mutazione antropologica”, destinata a modificare radicalmente i caratteri peculiari del genere umano. Essa sconvolge il concetto stesso di “in-dividuo”, che è sempre meno a-tòmos e sempre più “connesso”, appunto attraverso la rete, con il resto dell’umanità. Con tutte le conseguenze che il fenomeno comporta. In termini linguistici. Comportamentali. E ovviamente anche in campo psicologico. Viviamo ormai da tempo nell’epoca dell’immediatezza e dell’urgenza, in cui la rapidità e l’efficacia dell’azione costituiscono un’esigenza imprescindibile. “Chi si ferma è perduto”. In tale vorticoso contesto, il rischio più probabile (quasi una certezza) è che le “domande di senso”, quelle che maggiormente ci qualificano come esseri umani, differenziandoci dagli automi (l’interrogativo sul “perché” e non sul semplice “come” delle cose) appaiano come un noioso intoppo e che qualsiasi riflessione o argomentazione, che non possa essere sintetizzata in un tweet o in una battuta su Facebook, venga considerata alla stregua di un’inutile perdita di tempo. Sembra dunque più che mai confermata la “profezia”, lanciata a suo tempo da Martin Heidegger e dai filosofi della Scuola di Francoforte, circa l’imminente trionfo della “ragione strumentale” e del “pensiero calcolante”. Un mondo fatto di algoritmi finalizzati alla mera “efficienza”, in cui sparisce qualsiasi profondo interrogarsi sul senso della propria esistenza. Un mondo fast laddove ci sarebbe necessità di riflessioni slow. Pare proprio che l’uomo, che Max Weber definiva un “donatore di senso”, si stia sempre più trasformando in un essere automaticamente reattivo e istintivo. In un mondo di fatto sempre più proiettato verso l’appiattimento sul presente e verso una sorta di “nichilismo veritativo”.
Ciononostante appare velleitaria e improponibile qualsiasi battaglia di retroguardia. Tipica degli “apocalittici” che si atteggiano a laudatores temporis acti. Ripetendo il mantra che ogni generazione pronuncia in relazione a quelle che l’hanno preceduta. O che, in maniera poco realistica, ritiene di poter arrestare o anche semplicemente arginare il fenomeno. O, al contrario lo considera come qualcosa di ineluttabile e irreversibile, di fronte a cui non ci si può che rassegnare passivamente. Forse è il caso, invece, di assumere una ragionevole posizione “mediana”. Quella di chi ritiene che valga la pena “cavalcare la tigre”. Anche se è difficile. E il successo non è garantito.
Partiamo comunque dal presupposto ottimistico che le ricadute positive di Internet siano pressoché infinite. A partire da una certa, sia pur relativa, “democratizzazione” della comunicazione. Che permette a tutti di accedere a preziose informazioni o a esplicitare il proprio pensiero attraverso i social network. Così come, attraverso la Rete, è possibile costruire vere e proprie forme di “comunità”, sulla base di interessi condivisi. Per chi opera nel mondo della scuola e della cultura, poi, le tecnologie informatiche hanno assunto un ruolo sempre più centrale nella didattica. E ormai sembra completamente sparita qualsiasi sacca di resistenza nei confronti del loro uso. Ancora fino a pochi anni fa si profetizzava, sbagliando clamorosamente, che la scrittura sarebbe sparita con l’avvento dei cellulari. Che, al contrario, si sono rivelati formidabili strumenti di scrittura. Sia pure con forme di linguaggio radicalmente diverse e innovative rispetto a quelle letterarie e tradizionali.
Come difendersi, invece dai numerosi pericoli della rete? In particolare quelli che investono le nuove generazioni? A partire dalla video-dipendenza? Il primo e più importante dovere rimane quello delle relazioni umane che gli adulti (genitori o docenti) sono chiamati a intrattenere e incrementare con i ragazzi. Molto più di meri richiami moralistici o della semplice minaccia di punizioni, conviene forse richiamarsi all’insegnamento di Spinoza. Il quale riteneva che le passioni “insane” possano essere sconfitte solo da passioni più forti. Dunque la scommessa da vincere, sia pure in una battaglia difficilissima, se non impari, è quella di convincere i ragazzi che la bellezza del reale è di gran lunga superiore a quella del virtuale. E che quello tecnologico va considerato come un semplice strumento (più o meno come un’automobile o un motorino) per agevolare il nostro essere nel mondo. E non un feticcio destinato a sostituire la realtà stessa. Abituare, da parte dei genitori, i propri figli, sin da piccoli, ad apprezzare le bellezze “reali” (magari portandoli spesso a contatto con la natura e con l’arte), può quanto meno limitare la tendenza a ricercare il divertimento nel “virtuale”. Come già detto, il successo non è assicurato. Ma vale comunque la pena cominciare da qualche parte.