Classi dirigenti che dovrebbero governare cambiamenti epocali si rivelano spesso incapaci persino della piccola manutenzione quotidiana. Mentre nel senso comune sembra prevalere una sorta di nichilismo passivo. E molti intellettuali preferiscono le luci della ribalta alla fatica dello studio. Ma anche l’umanità, come la natura, conosce i suoi cataclismi. Quel che ne uscirà dipende anche da ognuno di noi.
di NANDO CIANCI
Cataclismi come quelli abbattutisi su Venezia, Matera e tante altre località, meno simboliche ma altrettanto vive, ci danno l’idea di una totale perdita di controllo dell’uomo sulla natura. Un controllo che, per la verità, non è mai esistito. Da milioni di anni la Terra conosce avanzate e ritiri di ghiacciai, espansioni e riflussi delle acque del mare. Il che non vuol dire che l’azione dell’uomo sia ininfluente sul clima. Quel che sta caratterizzando gli attuali cambiamenti climatici è un’accelerazione mai prima riscontrata, certamente frutto, almeno in parte, della vorticosa velocità che stiamo imprimendo a tutti gli aspetti del vivere umano e che comporta inevitabilmente uno sfruttamento dissennato delle risorse naturali.
Ci muoviamo, dunque, su due livelli di problemi: quelli dettati dal lungo cammino del Pianeta, non avaro di grandi mutazioni periodiche, e quello, databile negli ultimissimi secoli, derivante dalla dissennatezza dei suoi abitanti più scatenati. L’azione congiunta di questi due fattori mostra come sia una illusione pensare di arginare i cambiamenti climatici agendo solo sull’emergenza. Sarebbe - giudicando la cosa sui tempi lunghi – come pensare di fermare l’innalzamento dei livelli del mare costruendo castelli di sabbia sulla riva. Occorrerebbero, perciò, classi dirigenti politiche ed intellettuali che, a livello planetario, fossero capaci di ragionare sui tempi lunghi e concepire su di essi la cura del Pianeta, senza rinunciare, ovviamente, agli interventi urgenti per tamponare situazioni di emergenza indispensabili e vitali. Classi dirigenti tanto lungimiranti da studiare e capire quel che va corretto nei nostri comportamenti da subito e come adattarsi, nella prospettiva, ai cambiamenti sui quali la natura procede senza curarsi di noi.
Questo occorrerebbe. Nella realtà, da noi (ma non solo) abbiamo classi dirigenti che a volte non sono in grado neanche di garantire la cura di una pista ciclabile, preservandola dalle invasioni delle erbacce. Ma non si tratta solo delle cosiddette élites, perché anche nel senso comune (anche se, per fortuna, restano molte sacche di resistenza) va insinuandosi una sorta di nichilismo banale, disfattista e passivo[1], per quanto espressione di disagi reali, sparso a piene mani da quanti, in attesa di verificare quella futura (o disperando che ne esista una), annegano anche la vita presente nel nulla, alimentando la convinzione che niente è nelle mani dell’uomo, perché la scienza, la tecnologia, l’economia hanno una loro vita propria e una loro logica, che procedono autonomamente. Il che, in parte, è vero. Ma assolutizzando questa idea si dimentica che la scienza, la tecnologia, l’economia – per quanto tendenti ad andarsene per conto proprio – sono comunque costruzioni umane. E, dimenticandolo, le considera come una realtà in sé, le si trasporta in una sfera in certo qual senso metafisica[2], facendone un architrave dell’ordine cosmico e un impedimento al libero pensiero.
È un modo di vedere le cose che, con tutta evidenza, è funzionale al potere ed ha ripercussioni corpose anche in politica. Negli ultimi due secoli, destra e sinistra si sono fronteggiate facendo perno su valori forti. La patria, l’ordine sociale, la famiglia, l’altare, l’oscillazione tra liberismo e culto dello Stato sono stati – per dirla all’ingrosso – il sottofondo ideologico che ha caratterizzato la prima. La giustizia sociale, il riscatto del lavoro, il welfare, l’accesso universale ai diritti, la mano tesa agli ultimi del mondo hanno ispirato il cammino ideale della seconda. Con il venir meno dei valori forti[3] (le cui cause non è possibile qui indagare), il prevalere del nichilismo passivo e l’avvento della società liquida, che non offre ancoraggi culturali, sociali e politici, si è creato un deserto di valori nel quale si sguazza con la furbizia e l’opportunismo. Un terreno nel quale non sono di casa visioni del mondo e progetti di società. Nel quale il piccolo cabotaggio, l’annusare gli umori derivanti dai disagi e il confezionare furbesche risposte che non parlano né al cuore né al cervello, ma mirano al sottobosco dei sedimenti tribali, sono diventati i motori dell’azione politica. E in cui, perciò, brillano come stelle di prima grandezza leader incattiviti e fieri dell’impoverimento culturale al quale concorrono, masanielli da operetta o gigioni (o bulletti, secondo la terminologia adottata da alcuni) smaniosi di affermare il loro ego straripante. Con gli esponenti della sinistra che, avendo rinunciato a produrre pensieri e a promuovere lo studio e la ricerca di valori alti confacenti ai tempi nuovi, nonché a vivere fra i comuni mortali, appaiono in balia degli eventi e non trovano di meglio che abbracciare anch’essi la suprema religione del mercato e intendere la politica come costruzione di leader d’opinione.
Non sembrano andar molto meglio, le cose, nel lavoro degli intellettuali. Fatte le dovute eccezioni, di fronte alla difficoltà di elaborare concetti all’altezza dei mutamenti, valori corrispondenti all’attuale fase evolutiva della specie umana ed etiche ad essa adeguate, ce ne usciamo con l’etichettare genericamente come “post” ciò che sfugge ancora alla nostra elaborazione: postmodernità, postumano, postverità, postideologico… Certifichiamo così uno spaesamento che deriva dalla perdita di un orizzonte di senso. Ma, anche qui, il presenzialismo nei salotti televisivi o in più piccoli palcoscenici ha sostituito, in molti, la solitudine e la fatica dello studio, il lavoro di confronto dialettico, il disinteresse per il proprio personale successo in nome della ricerca di qualcosa che possa essere utile a tutti. Da ricercatori, molti intellettuali si sono trasformati prima in narcisi e poi più banalmente in vanesi.
Tutto perduto, dunque? Nient’affatto. Intanto quella esposta è solo un aspetto parziale della realtà, che è sempre più complessa di quel che si riesce a dire in poche righe. E poi: come la natura, anche l’umanità conosce i suoi sommovimenti e i suoi cataclismi. Basterebbe pensare alle migrazioni di milioni di uomini, le cui conseguenze sono ancora ben lungi dall’essere valutate. O al risveglio dei giovani, per ora solo in embrione, ma che il declino climatico del Pianeta, le degenerazioni del populismo e le crudeltà dei sovranismi potrebbero accelerare. O alla percezione, che pur resiste e che potrebbe dare frutti imprevedibili, che il senso della vita vada cercato nelle cose semplici e nei sentimenti sgombri dai veleni dell’arrivismo. Così come va ricordato che nei sotterranei della storia vi sono sempre movimenti che fatichiamo a scorgere. Prevedere cosa ne potrà nascere supera le forze di chi scrive queste righe. Ma, intanto, ognuno potrebbe cominciare, o continuare, a far la sua parte, risvegliandosi dall’edonismo beota che assottiglia sempre più le risorse della Terra e dismettendo il nichilismo passivo, confinandolo al massimo in qualche momento di sconforto da annegare con un buon bicchiere di vino in osteria.
[1] Altra cosa è il nichilismo filosofico, nel quale nichilismo attivo e nichilismo passivo sono termini fatti generare dalla lettura di Nietzsche operata da vari studiosi e che hanno implicazioni molto più articolate e profonde di quel che è possibile accennare nel contesto di questo articolo.
[2] Ponendosi, anche qui, in bizzarra contraddizione con il nichilismo filosofico, il quale nasce anche con la proclamazione della fine della metafisica.
[3] “Forti” in quanto condivisi da comunità ampie e non in quanto “assoluti”, perché molti di essi cambiano con il cambiar delle epoche.