Le polemiche scatenate dalle “accuse” di genitori provenienti da altri sistemi scolastici non porteranno a nulla, se non andiamo alla radice dei problemi e non ragioniamo sull’idea di scuola che vogliamo. Abbandonando luoghi comuni e superstizioni.
di NANDO CIANCI
Stupita da quel che succedeva nelle aule e da come è impostata la scuola italiana, una signora finlandese ha ritirato i figli dalla frequenza di un istituto siracusano, informandoci sulle ragioni di tale decisione con una lettera ai giornali. È seguita a ruota un altro pubblico atto d’accusa da parte di una genitrice polacca. Esigenza di esternare un disappunto accusatorio? Amore per l’Italia alla quale si vorrebbe donare consigli per “raddrizzare” la scuola? Poco importa.
Le reazioni, come sempre, sono state diverse. Ad iniziare da quelle dei difensori dell’onor patrio ferito, disposti magari ad ammettere qualche neo nella nostra scuola, ma non che ci vengano impartite lezioni dall’estero (di casa mia posso parlar male solo io).
Ci sono state, poi, le scrollate di spalle di chi è rassegnato alla convivenza con problemi di lunga data o di chi ritiene il tutto un inutile pubblico chiacchiericcio che non porta a niente. Gli amanti della polemica, invece, hanno colto lo spunto per sbizzarrirsi in varie direzioni, per lo più alla ricerca dei colpevoli. Una classe insegnante penosa, quale esce dalla descrizione della signora finlandese? Una società che non tiene in giusto conto l’istruzione e non onora a sufficienza i docenti? Forze politiche avvezze a ragionare solo in termini elettoralistici e quindi incapace di avere una visione del Paese nella quale, al di là delle retoriche frasi di circostanza, la scuola sia veramente un fulcro?
Come spesso avviene, l’incrociarsi e mescolarsi di onori feriti, di verbosità politiche, di piagnistei, di oneste rivendicazioni e di molto altro ha finito per creare una miscela che ha spostato la discussione su terreni vaghi e generici o, al contrario, a disperdersi nei rivoli dei malumori settoriali.
Sono finiti, così, nel dimenticatoio, un paio di principi che sarebbe saggio tener vivi quando ci si imbarca in questioni che riguardano la vita di milioni di persone.
Per esempio che, da noi, generalizzare è assai spesso un errore. Perché, riguardo ai servizi pubblici, nella penisola persistono storiche e mai colmate disparità fra regione e regione, fra città e città, persino tra quartiere e quartiere. Con la conseguenza che molto è lasciato alla individuale serietà, sensibilità, capacità. Perché un professionista aperto e responsabile, con un alto senso del servizio pubblico e del bene comune, dall’amministrazione statale è generalmente trattato alla pari di un collega sfaccendato che va a stravaccarsi dietro ad una scrivania o ad una cattedra.
Ma, sin qui, siamo ancora alla superfice. E, comunque, tutto ciò non toglie che vi sia un’impostazione generale che presiede alla vita della scuola italiana in tutte le sue articolazioni. Ed è qui che, come si dice, casca l’asino. La massima parte delle polemiche che si scatenano sulla scuola si concentra su fenomeni e atteggiamenti sgraditi. Raramente si inoltra nelle cause. Che sarebbe come dire ragionare su quale scuola abbiamo e su quale scuola vogliamo. Per esempio: quando faremo una discussione seria e senza strumentalismi sul rapporto della scuola con il mondo del lavoro? E del ruolo delle tecnologie nel processo di apprendimento e di educazione? E sul derivare dei fenomeni di violenza interna da carenza di autoritarismo o di autorevolezza? E di come la relazione umana sia fondamentale in un processo educativo? E sulla giaculatoria secondo cui per studiare la contemporaneità occorra sforbiciare e ridurre ai minimi termini l’attenzione alla classicità e al passato, per vedere se ciò sia un’esigenza ineludibile o una superficiale sciocchezza?
Dice: ma se non si parla d’altro! Certo, ma quasi sempre come fossimo ad un talk show. Cioè, partendo da luoghi comuni, costruiti e diffusi sulla base di ideologie sempre vive benché camuffate, che vengono spacciate per verità inoppugnabili. Si ha l’impressione di dire una cosa molto intelligente, ad esempio, quando si afferma che la scuola è avulsa dalla realtà e non prepara al lavoro e si sorvola sul fatto che la nostra scuola esporta nel mondo decine di migliaia di “cervelli” di prim’ordine che non hanno mai partecipato a nemmeno un’ora di alternanza scuola-lavoro e che pur lavorano a livelli alti ed altissimi (il che mostrerebbe già di per sé la superficialità della premessa). Così come resta spesso in ombra che la scuola deve preparare a qualcosa di più grande ed ampio, che comprende anche il lavoro ma non si riduce ad esso. Preparare, cioè, ad essere cittadini consapevoli, solidali, responsabili, istruiti e possibilmente colti. Con il che si può affrontare qualsiasi lavoro.
Così come ci si accontenta dell’altro luogo comune, anch’esso iper-ideologico, secondo il quale la tecnologia o è un bene supremo che deve assumere la guida della scuola o è una sciagura perché incide negativamente sullo sviluppo psichico equilibrato. Trascurando che una scuola all’altezza dei tempi prima di tutto si interroga su come un mezzo possa diventare fine (e la storia ne presenta esempi a iosa), sul se e sul come questo possa essere evitato e su come trovare un equilibrio fra le caratteristiche vitali dell’uomo, la natura, la tecnologia, l’economia. Avendo chiaro che dalla scuola verranno fuori le generazioni che dovranno rendere possibile la vita del Pianeta il più a lungo possibile. Che è faccenda assai complicata e non si può ridurre a quattro slogan.
Come si vede, le questioni da mettere in ordine e su cui scavare sarebbero tante. Ma non verremo a capo di niente fino a quando resteremo sul terreno della chiacchiera mediatica che risponde all’impulso del momento e alla polemica contingente. Terreno sul quale spesso restiamo anche quando ci ammantiamo di dati “inoppugnabili”. Per esempio quelli “certificati” dall’Ocse. La quale svolge certamente azione meritoria. Ma quanti di noi si sono mai chiesti e sono andati a vedere su cosa e in quali modi l’Ocse indaga? Quali sono le domande che pone a se stessa e ai sistemi scolastici? E quanti hanno riflettuto che anche la scelta delle domande e dei campi d’indagine rappresenta un preciso indirizzo connaturato ad una idea di scuola che si ha in mente? E che, perciò, se l’idea di scuola diventasse un’altra, cambierebbero in parte i campi e i metodi di ricerca di questo e di altri organismi?
Anche i frutti delle indagini, insomma, non devono diventare una superstizione, vale a dire qualcosa in cui si crede perché conferiamo una sacrale inviolabilità ad organismi che, poi, a ben vedere, vengono chiamati in causa solo quando si ha bisogno di confortare una propria tesi. Così come, per approfondire i problemi della nostra scuola, non dovremmo avere bisogno degli impulsi plateali di chi viene da altri sistemi scolastici. Dovrebbero essere sufficienti i ben più diffusi disagi di ragazzi, docenti, famiglie e personale scolastico che in essa quotidianamente vivono.