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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

VICINI E LONTANI

GUERRA1NANDO FARIn un libro di alcuni anni fa[1], Paolo Gallina ricorre alla metafora della zattera per spiegare come il nostro coinvolgimento emotivo riguardo ai fatti che accadono nel mondo e a quel che succede agli uomini decresca man mano che ci allontaniamo dalla immediatezza del nostro vissuto.
Ognuno di noi, dice, naviga con una sua zattera nell’oceano della vita, e perciò in balia delle correnti.  Al centro di essa, vicino a noi e ben assicurati, viaggiano i familiari più stretti e quelli con cui pratichiamo affetti quotidiani. Poi, man mano che procediamo verso i margini esterni si collocano, in posizione di minor sicurezza, esseri, animati o anche non, a seconda del posto che hanno nella nostra vita. In definitiva: «L’empatia che siamo in grado di secernere nella nostra mente è inversamente proporzionale alla distanza della persona (oggetto o concetto) dal baricentro»[2].
Accade, inoltre che, non essendo infinite le dimensioni della zattera, tutti quelli che non sono riusciti a trovarvi posto ne rimangano fuori. La scelta di chi far salire, infine, è fatta da ognuno di noi riguardo alla sua personale zattera, ma tale scelta non si effettua solo (e forse neanche nella parte maggiore) a livello conscio.
Questo modo di funzionare della nostra psiche non è granché utile a spiegare l’origine della guerra scatenata in questa settimana dalla Russia. Per far ciò occorrerebbe inoltrarsi nella geopolitica, nell’economia, nei sistemi politici e nei meccanismi con i quali, al loro interno, vengono prese le decisioni, nella storia delle relazioni tra i popoli, nella dinamica dello scacchiere internazionale e in altro ancora. Ma quel funzionamento è perfettamente noto agli strateghi dell’informazione che, anche qui in Occidente, concentrano i riflettori in modo monotematico e quasi ossessivo sugli effetti disumani di un conflitto che, pur non essendo l’unico al mondo, si svolge praticamente alle nostre porte.

Città distrutte, bambini e civili inermi orribilmente massacrati in spregio ad ogni pur minima forma di umana pietà, popolazioni costrette all’esodo ve ne sono, purtroppo, ad ogni latitudine. Si contano a milioni le persone che ogni anno sono costrette ad abbandonare le loro case a causa di guerre e violenze. Una rapida ricerca sulla rete può fornire a tutti l’atlante dei conflitti in corso nel mondo e dei “punti caldi” da dove originano i flussi migratori. Che l’attenzione venga focalizzato su ciò che è a noi più vicino può essere spiegato, dunque, anche come detto sopra. Ma il combinarsi della nostra naturale attenzione al vicino con il lavoro più o meno orchestrato dei media provoca anche effetti collaterali che, in genere, le guerre lontane non inducono, o lo fanno in misura minore.
ERASMOPer esempio, si va manifestando anche da noi un fenomeno che la guerra porta sempre con sé: una diffusa regressione del pensiero. Lo spirito critico di chi vuol indagare più a fondo i problemi e cercare di analizzare i molteplici aspetti della questione viene guardato con sospetto. Chi avanza dubbi rischia grosso se abita in uno dei paesi direttamente coinvolti nella guerra. Se ha la fortuna di vivere fuori da essi, rischia comunque di vedersi appiccicata addosso l’etichetta di fiancheggiatore degli aggressori e di simpatie per regimi liberticidi. L’urgenza dei tempi e le emozioni e commozioni che gli avvenimenti suscitano portano a semplificazioni inappellabili. La distinzione tra bene e male viene tracciato in modo indiscutibile: tutto il male da una parte, tutto il bene dall’altra. Tutto ciò che riguarda il paese aggredito viene santificato e, nella sacrosanta indignazione contro chi commette i crimini di guerra, si dimentica anche qualche atrocità commessa in passato all’interno di quello che ora è visto come il regno del bene. Nella umana commozione per le vittime innocenti, si dimenticano anche le sofferenze inflitte a parte di loro, in precedenza, da qualche frangia di coloro che oggi difendono la loro terra. Si instaura una sorta di divieto assoluto di ripercorre tappe e responsabilità di una non innocente cecità politica diffusa anche nella vasta area del mondo che, giustamente, condanna l’invasione.
Tutto comprensibile, tutto umanamente tragico. Più che doverosa la vicinanza alle vittime innocenti. Così come l’avversione all’invasione deve sempre restare intransigente.
Ma, se vogKANT 1liamo avere uno sguardo volto più verso la specie che verso la tribù, occorre sfuggire all’ottundente bombardamento mediatico e riconsiderare anche noi stessi, nel bene e nel male. L’Occidente, si sa, si è a sua volta macchiato, nei secoli e anche recentemente, di politiche aggressive e distruttive che hanno fatto piangere popoli interi (dalla conquista di altri continenti fino a recenti “esportazioni di democrazia” con le armi). Ma ha anche costruito valori che, per quanto possano essere visti diversamente da altre angolazioni nel mondo, noi riteniamo universali. Fra essi il pensiero critico. Quello che sa guardare all’insieme, non sottostà al vento del momento e guarda con il coraggio della libertà allo svolgersi della storia e alle scelte, da chiunque fatte, che lo sottendono. Fra essi, anche, una ricerca sui fondamenti e sulle possibilità della convivenza pacifica che ha avuto grandi interpreti quali, fra gli altri, Erasmo da Rotterdam e Immanuel Kant. E, ancora, una tradizione culturale che ha saputo accogliere e amare grandi artisti. Non ultimi i grandi scrittori nati in Russia e in Ucraina.
Fra gli strazi umanitari e il pensiero monodirezionale che spira dalla guerra, occorre salvare il diritto a capire e a garantire la possibilità di esercitare il pensiero critico. Che, a ben vedere, è necessario anche per poter esplorare con lucidità tutte le possibili vie per costruire la pace.

 

[1] L’anima delle macchine, Dedalo, Bari, 2015.
[2] Ivi, p. 38.

La foto del titolo è Pixabay

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