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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

IL CAMMINO DELLA SPERANZA

ROBERTOLa drammatica lotta per l’emancipazione della donna nella società italiana del dopoguerra tra pregiudizi sessuali, comportamenti arcaici, avvento della modernità e rottura della tradizione visto attraverso il cinema e le canzoni.

Negli stessi anni del “miracolo economico”, accanto all’unificazione nella lingua e nei modelli di comportamento degli italiani, indotta dalla televisione, anche l’abbigliamento e la moda, in particolare tra i giovani e nel nord della penisola, diventano sempre più liberi, sottraendosi ai condizionamenti della morale tradizionale e conservatrice. Tutto ciò si accompagna a evidenti trasformazioni nella famiglia, dove la donna tende ad acquistare un ruolo sempre meno subalterno, grazie anche alla sua condizione di lavoratrice. L’attenzione verso le donne, in particolare le casalinghe, traspare soprattutto dalle riviste femminili, nelle quali emerge l’immagine di una donna moderna che vive in case dotate di ogni tipo di elettrodomestici. La maggiore libertà FIRMA LEOMBRONInei costumi, la crescente disinibizione che caratterizza i comportamenti giovanili, la liberalizzazione nei rapporti sessuali, si accompagnano tuttavia al permanere di valori rurali e tradizionali soprattutto nel Mezzogiorno. Si pensi alla persistenza del famigerato “delitto d’onore”, sancito dall’art. 587 del Codice Penale, che prevede l’attenuazione della pena per particolari tipi di omicidio (ad esempio l’uccisione della coniuge adultera), motivandola con la comprensione del movente (la salvaguardia dell’ “onore” o della “reputazione”) che ha spinto l’assassino al delitto, e che risulta invece assente in analoghi omicidi.
Un “classico” cinematografico, appartenente al genere della commedia all’italiana, che descrive con efficace realismo la condizione femminile in Sicilia (e, più in generale, nel meridione) nei primi anni Sessanta, con particolare riferimento al “delitto d’onore”, è il film Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi. Tre anni dopo Rocco e i suoi fratelli di Visconti, Divorzio all’italiana costituisce un altro illustre esempio di come un regista settentrionale (in questo caso il genovese Pietro Germi) affronta la realtà del sottosviluppo meridionale, nella fattispecie i residui arcaici della mentalità in una Sicilia che si sta affacciando alla modernità senza tuttavia essersi liberata di codici e comportamenti arcaici. Il film segna una svolta nella cinematografia di Germi, il quale, pur ricollegandosi alla Sicilia del suo periodo neorealista (espresso da film quali In nome della legge e Il cammino della speranza), con largo uso di un dialetto siciliano stereotipato, affronta l’argomento nella chiave satirica tipica della commedia di costume. Ma tale vena satirica non attenua affatto il peso della denuncia. Fortemente critico nei confronti di una Chiesa che tende a isolarsi dal pensiero moderno e dalla scienza, il regista esercita il suo beffardo e indignato sarcasmo, accusato da alcuni critici di eccessivo “moralismo” nordista, nei confronti dell’anacronistica legislazione in vigore nell’Italia di quegli anni, doppiamente evidente nell’assenza di una legge sul divorzio (che sarà approvata solo nel 1970), e nell’assurdo articolo 587 del Codice Penale, dal sapore medioevale, destinato a resistere ancora per venti anni. Ma il film ci restituisce, al contempo, un ironico e grottesco quadretto dei pregiudizi sessuali e delle assurde convenzioni che tormentano la provincia siciliana e meridionale negli anni del boom economico
Un’attenzione particolare alla condizione femminile nell’Italia del boom è anche quella che traspare, questa volta con toni drammatici, dal film Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, un regista che non ha mai abbandonato, nella sua produzione cinematografica, il tema dell’emancipazione della donna e delle difficoltà che essa incontra sul cammino della propria realizzazione. Il film delinea con efficacia il ritratto di una ragazza sprovveduta, di estrazione paesana, violentemente trapiantata in un’Italia metropolitana e neocapitalistica. Apparentemente senza problemi, abbagliata e lusingata dai miti falsi e bugiardi della grande città, paga il prezzo della propria emancipazione a una società cinica, alla quale tenta invano di adattarsi, cambiando continuamente il proprio look. La ragazza appare dunque come il simbolo di una più generale condizione femminile nella società italiana del dopoguerra, incarnata in una donna che lotta drammaticamente per sottrarsi alla condizione di puro “oggetto” e conquistare una propria “soggettività”, in un’Italia ben diversa da quella rurale e popolare degli anni Cinquanta, tra un ceto medio-borghese di provincia all’interno del quale dominano imbroglioni, arrivisti e volgari seduttori, personaggi non dissimili dai “mostri” di Risi, che costruiscono le proprie fortune sfruttando le occasioni offerte dal trionfante mondo del cinema e della pubblicità. In tale contesto, la colonna sonora, costituita in gran parte da ossessivi e ripetuti motivi musicali tratti dai juke-box, sembra avere lo scopo di sottolineare ulteriormente la mediocrità culturale della protagonista e dello squallido ambiente circostante.
La nuova concezione della donna agli albori del boom economico emerge anche in alcune ironiche canzoni di Fred Buscaglione, che proprio in questi anni raggiunge il culmine del successo come cantautore e come attore, contribuendo, attraverso la rottura con la tradizione melodrammatica, a modificare, sprovincializzandoli, i tratti della canzone italiana. I suoi motivi di successo, cantati con la sua tipica voce rauca, si inseriscono in un classico ambiente “bulli e pupe”, nel quale Buscaglione interpreta, con una mimica straordinaria, il personaggio del gangster americano degli anni Trenta, un simpatico spaccone, al contempo bonario e spietato, perennemente attratto dai liquori, dalle sigarette e dall’altro sesso. Il cantante torinese si serve dello swing d’oltreoceano per irridere un certo stereotipo “machista”, tipico della stessa cultura americana, che in quegli anni è sbeffeggiato, in tal caso però in nome di valori “nazionali”, anche da Alberto Sordi, nel film Un americano a Roma, e dal cantante napoletano Renato Carosone in Tu vuo’ fa’ l’americano. Tra le canzoni di Buscaglione si distingue in particolare la trasgressiva Eri piccola così (1958), ispirata a un episodio di cronaca nera, riferito in una rivista americana. Si tratta di uno dei brani più significativi della rivoluzione musicale operata dal cantante torinese, in collaborazione con il suo amico paroliere Leo Chiosso, nella quale si assiste a un radicale ribaltamento nel rapporto tra i sessi: rompendo con la tradizione tipica della precedente canzone melodica e strappalacrime della donna (mamma, sposa, fidanzata) fedele e sottomessa all’uomo, qui abbiamo, al contrario, una canzone che, non senza auto-ironia, ci presenta l’immagine di una femme fatale e denuncia il ribaltamento operato nei confronti di un uomo ormai addirittura succubo di una moderna donna emancipata.

T’ho veduta.
T’ho seguita.
T’ho fermata.
T’ho baciata.

Eri piccola,
piccola, piccola,
così!

M’hai guardato.
Hai taciuto.
ho pensato:
“Beh, son piaciuto”.

Eri piccola...
 
Poi,
è nato il nostro folle amore,
che,
ripenso ancora con terrore.

M’hai stregato.
T’ho creduta.
L’hai voluto.
T’ho sposata.

Eri piccola...
 
T’ho viziata,
coccolata,
latte, burro,
marmellata.

Eri piccola...
 
E cretino
sono stato,
anche il gatto
m’hai venduto.

Ma eri piccola,
eh già, piccola, piccola,
così!

Tu,
fumavi mille sigarette.
Io,
facevo il grano col “tressette”.

Poi un giorno
m’hai piantato
per un tipo spappolato.
T’ho cercato,
l’ho scovato,
l’ho guardato,
s’è squagliato.

Quattro schiaffi t’ho servito,
Tu mi hai detto: “Disgraziato!”.
La pistola m’hai puntato, eh,
ed un colpo m’hai sparato.

Ah sì...
Spara... (bang).
Spara... (bang),
e spara... (bang)
khoff, khoff , khoff, khoff , (colpi di tosse)

E pensare che eri piccola,
ma piccola,
tanto piccola,
così!

Una canzone che rispecchia fino in fondo i mutamenti avvenuti nel corso dei primi anni Sessanta nei costumi sessuali degli italiani, sempre più liberi e disinibiti, è Sapore di sale (1963), uno dei motivi di maggiore successo del cantautore genovese Gino Paoli. La canzone, scritta in seguito a una storia d’amore vissuta dal cantautore con l’attrice Stefania Sandrelli, una vicenda scandalosa la cui eco spingerà Paoli a tentare il suicidio, consegue il quarto posto al Cantagiro e ottiene uno straordinario successo di vendite. Il testo, al pari di tanti altri prodotti in questi anni dai cantautori emergenti (da Bindi a Tenco, da De Andrè a Gaber a Dalla), esprime una decisa reazione nei confronti del provincialismo e del conformismo che improntano la canzone italiana, in particolare quella che trionfa a Sanremo: questi nuovi cantanti, infatti, al di là del falso stereotipo degli “allegri e spensierati anni Sessanta”, esprimono una elevata tensione verso altri valori e altri modelli di vita (“un “mondo diverso, diverso da qui”). Ascoltata in tutte le spiagge e i dancing, Sapore di sale, nonostante un contenuto di profondità ben superiore rispetto a quello delle contemporanee “canzoni da spiaggia” portate al successo da Nico Fidenco ed Edoardo Vianello (da Pinne, fucile e occhiali a Legata a un granello di sabbia, da I Watussi a Guarda come dondolo), è destinata a trasformarsi rapidamente in una vera e propria colonna sonora dell’estate italiana negli anni del boom economico. La sua importanza nella storia della nostra canzone va ben oltre il semplice rispecchiamento della modernizzazione dei costumi e dei comportamenti nell’Italia dei primi anni Sessanta, ma consiste nell’esercitare un ruolo propulsore nei confronti della medesima e dei suoi costumi.

Sapore di sale, sapore di mare
che hai sulla pelle, che hai sulle labbra
quando esci dall’acqua e ti vieni a sdraiare
vicino a me, vicino a me.
Sapore di sale, sapore di mare
un gusto un po’ amaro di cose perdute
di cose lasciate lontano da noi
dove il mondo è diverso, diverso da qui.

Il tempo è nei giorni che passano pigri
e lasciano in bocca il gusto del sale.
Ti butti nell’acqua e mi lasci a guardarti
e rimango da solo nella sabbia e nel sol.
Poi torni vicino e ti lasci cadere
così nella sabbia e nelle mie braccia
e mentre ti bacio sapore di sale
sapore di mare, sapore di te.

(Rondi, 1961; 1965; Ferrero, 1965; Borgna, 1989a; 1992; Brunetta, 1995, II vol.; 2007; Divorzio all’italiana. Note & notizie, 1997; Casiraghi, 1997; Mereghetti, 1998; Liperi, 1999; Berselli, 2007a; Giardina – Sabbatucci - Vidotto, 2008; Morandini, 2009; www.angolotesti.it; www.italica.rai.it).

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