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DIETRO IL MONUMENTO

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Verso i monumenti attraverso cui il potere celebra se stesso oggi si manifesta un’esigenza di revisione della storia. Qualche volta l’iconoclastia è favorita dal nuovo potere. Il rapporto della scultura con l’architettura e con l’urbanistica.

      di MASSIMO PALLADINI

 

PALLADINI«Exegi monumentum aere perennius…» Così Orazio in una sua Ode definisce la propria opera: più duratura del bronzo con il quale si costruivano statue pregiate ma sottoposte alle ingiurie del tempo e degli uomini. Non sbagliava; sia per il valore della sua arte sia per la effettiva capacità del testo scritto di sopravvivere nonostante la fragilità dei supporti a cui si è affidato nel tempo: la quantità della diffusione, a stampa ed ora in rete, assicura una durata non garantita dalla sola conservazione del supporto originale (che, infatti, se sopravvive diventa oggetto da museo).
Ma anche Orazio, nel prosieguo dell’Ode, sceglie un paragone azzardato, mostrando come possa apparire durevole la forma del potere di cui si ha esperienza.
Scrive, infatti, più oltre: «…crescerò continuamente giovane per la lode futura finché il Pontefice salirà il Campidoglio con la silenziosa Vergine…». È andata poi a finire diversamente e l’antica Roma ci parla attraverso le rovine dei monumenti e non con i responsi del tempio di Giove; mentre un altro Pontefice è insediato nella sua città, a capo di una comunità di ex fuorilegge
Queste riflessioni mi sono tornate in mente in occasione dei recenti risvolti iconoclasti del moto mondiale di reazione all’ennesimo episodio di razzismo in USA, nel quale George Floyd, quarantasettenne uomo di colore, è stato ucciso durante un fermo da un poliziotto bianco, per soffocamento mediante l’imposizione di un ginocchio sulla gola fino alla morte. Ne sono seguiti altri episodi ed una escalation ancora in atto tra repressioni e violenza delle proteste.
Black lives matter, le vite nere contano. Nel semplice slogan si esprime una esigenza profonda di riscrittura delle regole di convivenza civile, per soddisfare la quale non si può che mettere mano ai luoghi comuni della storia. Qui si incontra la statuaria che costella le nostre piazze, adorna i nostri maggiori fabbricati nelle facciate coi loro fastigi, negli androni, nei saloni d’onore. Qui il potere si è rappresentato, a volte senza pudore, ponendo i capisaldi della particolare civilizzazione che, di volta in volta, venne ritenuta definitiva.
Tra le prime cadde la brutta statua di un mercante di schiavi (Edward Colston di Bristol) che delle ricchezze così accumulate aveva usato in una qualche percentuale per beneficenza alla sua comunità; poi altre caddero, furono imbrattate o addirittura rimosse dalle autorità (tra cui in Belgio una – per la quale di certo non ci strapperemo le vesti –  dedicata a Leopoldo II  criminale tristemente noto per gli eccidi nel Congo): in città come Londra ad esempio, il Sindaco Sadiq Khan ordina una "revisione" di tutti i monumenti; credo lo  faccia non solo manifestando la sua sensibilità di inglese dell’immigrazione ma anche per  rispondere ad una tensione che non risparmia ormai pilastri della storia mondiale come Winston Churchill o, negli USA, il nostro Cristoforo Colombo.
La questione è assai complicata perché a questo medium comunicativo il potere ha assegnato la glorificazione di veri e propri cialtroni promossi da logiche di fazione, di eroi nazionali  (si pensi a Nelson, eroe britannico del mare ma inviso in Francia e nella nostra Napoli) e di virtù generali attribuite alla  propria dominazione.
Infine, di  recente, le statue stesse costituiscono delle provocazioni, come nel caso di Montanelli i cui demeriti accertati offuscano qualsiasi asserito valore professionale o con la continua proposizione di personaggi discussi del recente passato.
Siamo di fronte, mi sembra, ad una istanza di revisione della storia  che, come viene dalle stesse stanze del potere, promana anche da questi movimenti, anche se in forma  sommaria, inadeguata, piena di frustrazione e risentimento. La sintesi sarà quella  che i rapporti di potere determineranno, al di là dei  desiderata dei manifestanti   e delle indignate reazioni dei difensori dello statu quo..
L’ultimo grande episodio di iconoclastia di massa è stato l’abbattimento di statue alla caduta dei regimi comunisti; in quella occasione gli stessi che oggi gridano alla barbarie,  esultavano per ogni tonfo, favorito,  oltre che dal consenso popolare, dai nuovi poteri prodighi di mezzi meccanici (ricorderete la scena del busto di Lenin, trasportato da un elicottero per le strade di Berlino nel film  Goodbye, Lenin). Lì la storia fu riscritta; nel breve periodo questo è ancora possibile; alla lunga, ogni episodio viene filtrato fino a diventare documento più che attestazione di valore.
Paradossalmente proprio l’oggetto dell’originaria iconoclastia, l’arte religiosa, la rappresentazione del divino che ha diviso le religioni, non è ancora bersaglio della nuova ondata: come se la struttura comunicativa che essa  ha rappresentato (gli affreschi delle chiese come “Bibbia dei poveri”, ecc.) esenti i vari santi dal presentare il conto di comportamenti non sempre commendevoli.
Altri metodi sommari  di resistenza competitiva alla storia ufficiale hanno mostrato la corda ed una facilità di omologazione sorprendente: come con  il fumetto Asterix, nel quale si rivendicano le virtù gauloises contro la potenza ottusa dei romani, risolto poi nello stereotipo dei furbi paesani contro il potere immutabile; o come nel caso degli indiani d’America che, quale contraltare del monte Rushmore, dove sono effigiati i quattro Presidenti americani, stanno costruendo nel South Dakota una  grande scultura ricavata da una montagna dedicata a Crazy Horse, l’ultimo capo dei Sioux; ma già durante i lavori,  essa si è trasformata in attrazione turistica mentre sempre più si smarrisce, nelle riserve e tra i Casinò, la originaria cultura e identità amerindia. Cosicché  mi appare che il ridimensionamento più efficace di questo gigantismo celebrativo lo abbia operato Hitchcock nel film Intrigo internazionale (North by Northwest)” mettendo tra quelle rocce una coppia in fuga.
La partita dunque è aperta e si combatte sui vari piani  rispetto ai quali molto deciderà la capacità di favorire la comprensione delle opere con apparati critici (questo mi sembra il tentativo compiuto con il film Via col vento (Gone with the Wind)); di riconoscere autocriticamente le forzature che ingombrano il nostro ambiente urbano (ancora ieri strade di Roma erano intitolate a firmatari del Manifesto della Razza), ed anche  di guardarsi dentro nei molti cliché sedimentati nella letteratura e nelle arti  (penso a Kipling, ma anche a Mandrake con il suo assistente africano Lothar: figure familiari dell’infanzia sulle quali abbiamo proiettato una certa dimensione dell’esotico senza poterne coglierne lo scompenso rispetto ad altre sensibilità).
Resta ancora da riflettere sul ruolo urbano della scultura, quando si presenta come  ancillare rispetto all’architettura e alla urbanistica.
Diciamo la verità: l’architettura  l’ha subita e, insieme, strumentalizzata. Da un lato si è fatta suo apparato di esposizione: si pensi a certe facciate, traforate di nicchiole per contenere statue, dalla Biblioteca di Efeso, alle cattedrali gotiche a Palazzo reale di Napoli; dall’altro ne ha tratto elementi architettonici come nel tempietto dell’Eretteo nell’Acropoli di Atene o utilizzando le statue come guglie, anche con funzione statica, nei pinnacoli flamboyants.
A volte la scultura ha osato farsi architettura essa stessa  come nel Colosso di Rodi, crollata meraviglia del mondo; o con la sfinge egiziana, o il San Carlone di Arona o con la statua della Libertà che francesi e americani vollero per mostrarla a chi arrivava come  volto del Nuovo Mondo.
Altre volte le arti si sono contaminate in pastiche discutibili come l’Altare della Patria, alias il Vittoriano, eretto in spregio alle antichità romane che invade ( come poi altri nefasti “patrioti”) pur dichiarandosene in continuità. Oggi l’enorme “torta” (come la definì Bruno Zevi che ne chiedeva l’abbattimento) è dedicata al “Milite Ignoto”, in onore dei caduti di tutte le guerre; ma conserva il suo apparato celebrativo di fregi scultorei e colonne, intorno alla statua equestre del piccolo re piemontese che ebbe in sorte di diventare il nostro primo capo dello Stato. La miglior rappresentazione del monumento è forse quella delle sue interiora:gli ambienti interni e claustrofobici che compaiono nel film Il ventre dell’architetto (The Belly of an Architect) di Peter Greenaway; ancora una volta una narrazione non convenzionale che rifiuta il registro imposto dall’opera.
I testoni di Mussolini, invece, sono stati rimossi; erano imbarazzanti sotto il profilo etico ed estetico e comprensibili obiettivi nell’Italia liberata; non così, però, per tutta l’arte fascista spesso di grande pregio; non solo per l’architettura (che vide lo scontro tra tendenze  passatiste ed istanze razionaliste  innovative) ma anche per i grandi affreschi, i mosaici ,le sculture che la accompagnarono; ad esempio,la statua della Minerva di Arturo Martini  all’Università di Roma  ha saputo restare nel ricordo di generazioni di studenti come evocazione dello studio come forza e come raggiungimento.
Motivi di soccorso (ma anche di imbarazzo) la scultura ha fornito all’urbanistica: le grandi prospettive verso le statue equestri, le Caterine di Russia circondate dai suoi favoriti, i monumenti alle conquiste lungo le rive, le quiete piazze borghesi con i loro Garibaldi, Mazzini, Cavour. Con loro una miriade di personaggi locali, eccellenze nei loro campi (ricordo il Galvani di Bologna con la sua rana sezionata in evidenza), segni del comando ed anche riparazione di torti (come il Giordano Bruno di Campo de’ Fiori a Roma). Per citare, infine, le grandi messe in scena come quella realizzata da Salvi e poi da Pannini a Fontana di Trevi (moltiplicata nel mondo dalla celebre scena ne La dolce vita di Fellini) o come a piazza Navona con il dialogo-scontro tra Bernini e Borromini nell’invaso dello stadio romano, al tempo in cui forse di più si integrarono le due discipline. Qui lo spettacolo barocco assorbe  supera ogni motivo encomiastico e celebrativo in funzione del quale è stato allestito.
Oggi il cambio dei registri compositivi  intervenuto  conduce la architettura tutta al di qua della lezione delle avanguardie, mentre la modellazione plastica spesso si àncora a  regole figurative o rimane nella logica di costruzione dell’oggetto; questo rende divergenti i linguaggi e meno esplicite le occasioni celebrative; ma la conformazione dello spazio pubblico continua ad  esprimere una rappresentazione del potere e dei rapporti di forza nella società,  pur se con minore densità rispetto alla città storica e al suo accumulo di celebrazioni. Questo spiega il presente attacco come rivendicazione, a prescindere da ogni possibile riserva sulle cronache del suo inverarsi; e riporta la questione alla capacità delle società di fare i conti con se stesse, modificando le proprie certezze in rapporto alla loro evoluzione. Così che si possa giocare nei giardinetti intorno al monumento di Mazzini tra ragazzini (i nuovi Borbonici, Sabaudi e Repubblicani), fiduciosi di avere delle opportunità, un sostegno alla loro crescita e convinti che ciò non dipenda da quel pensoso personaggio.

Sullo stesso argomento, in questo blog, Il fardello della memoria, di altro autore (https://www.apassoduomo.it/index.php/8-umane-genti/452-il-fardello-della-memoria).

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