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IRRIDUCIBILE

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IRRIDUCIBILEFederico Faggin,  Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, Milano, 2022. Riflessioni su coscienza, comprensione e intelligenza artificiale partendo dalla lettura di questo libro.

 

NICOLA RANIERINato a Vicenza nel 1941, laureato in fisica all’Università di Padova nel 1965, residente dal 1968 negli Stati Uniti, Federico Faggin è il padre del microprocessore e di molte invenzioni che hanno rivoluzionato la tecnologia e il mondo in cui viviamo.
Però, dopo aver cercato per anni di capire se la coscienza possa sorgere dai segnali elettrici o biochimici, finisce per constatare che essi producono altri segnali elettrici o altre conseguenze fisiche – come la forza o il movimento – ma non un salto qualitativo tale da generare FIRMA NICOLAsensazioni o sentimenti. Diviene, quindi, persuaso della insormontabile differenza tra un essere umano e un robot. Nel quale non vi è possibilità di un barlume di riflessione né di dubbio alcuno né di una qualche rudimentale forma di libero arbitrio, giacché esso permane sempre nel medesimo stato di semplice meccanismo funzionante in base a criteri riduzionistici e meccanicistici, appunto.
Perciò risulta destituita di fondamento l’idea secondo cui noi saremmo biologiche macchine analoghe ai computer.
Anzi il famoso ideatore e imprenditore di tecnologie all’avanguardia, non solo ritiene che la coscienza risulti irriducibile al computer e pure a quelle basi fisiche che costituiscono l’oggetto d’indagine delle neuroscienze, ma si adopera fattivamente (mediante una fondazione dedicata allo studio della coscienza) in favore di un nuovo sapere, che ponga coscienza e libero arbitrio al centro della ricerca scientifica e in direzione contraria alla visione meccanicistica della fisica classica.
Un nuovo sapere scientifico, del resto, già si preannuncia nella fisica quantistica che (a suo giudizio) non descrive la realtà esteriore, bensì quella interiore. Tanto che, se così venisse intesa, essa non risulterebbe incomprensibile – come invece dai più si tende a considerarla.
In questo spostare l’accento sulla interiorità, Faggin – per un verso – si ispira a Wolfgang Pauli, il fisico quantistico che nel 1950 immaginava la scienza futura alle prese con una realtà né fisica né psichica, bensì entrambe le cose riunite, giacché sempre di materia-energia si tratta; per altro verso, riscopre la sua prima formazione mistico-filosofica. Suo padre, Giuseppe Faggin, era infatti un eminente studioso del platonismo, di Plotino soprattutto, nonché della mistica medioevale e dell’occultismo rinascimentale. Non a caso nell’Università di Padova, prima che docente, fu allievo di Erminio Troilo, il filosofo di origine abruzzese che dall’iniziale positivismo – à la Ardigò – era pervenuto a una concezione ispirata allo psichismo e al panteismo di Giordano Bruno e di Spinoza.
Federico Faggin sembra ricalcare a tal punto le orme del padre che le ripercorre in seguito a una vera e propria conversione.
Quando, superati i quarant’anni, si trova al culmine del successo anche imprenditoriale, gli accade di imbattersi in quello che lui chiama risveglio spirituale.
All’improvviso, vede crollare il granitico convincimento di un’esistenza tutta dedita all’esteriorità, alla competizione, all’utilitarismo, ma pure la fede nei dogmi scientifici. Mediante i quali aveva sostituito i dogmi religiosi della sua infanzia e si era quindi immaginato come un osservatore che dall’esterno percepisce il mondo separato da sé.
Invece, scopre di essere sia lo sperimentatore sia l’esperienza: sia l’osservatore del mondo sia il mondo. Il mondo che osserva se stesso, cioè un conoscere da dentro anziché da fuori. Come dire: la sostanza che conosce se stessa. E conoscendosi esperisce un insieme coeso di verità e di amore senza precedenti, a tutti i livelli del corpo e della mente che, vibrando, fluttuano entro una dimensione in cui il reale è sia particella sia onda poiché ogni entità sta nell’Uno-Tutto: indivisibile ed eterno.
Si tratta di un risveglio che ricongiunge gli esiti della recente fisica quantistica a Plotino, a tutto il platonismo a lui precedente e successivo, fino a Jung e Hillman, ma pure all’intera tradizione del panpsichismo, dall’induismo vedico ai naturalisti rinascimentali, a Giordano Bruno principalmente, secondo il quale: «Tutte le cose sono nell’universo e l’universo è in tutte le cose, che si uniscono in perfetta armonia».
Proprio per rimarcare il netto distacco della scienza moderna dalla animazione universale – o per colmare il vuoto venutosi a creare – Federico Faggin riporta in epigrafe alla prima parte del libro il severo monito (a futura memoria) di Giordano Bruno: «Se questa scienza che grandi vantaggi porterà all’uomo non servirà all’uomo per comprendere se stesso, finirà per rigirarsi contro l’uomo». 
La prima parte del libro, infatti, giudica come falsa – in quanto esteriore – la visione meccanicistica del mondo, sottesa alla fisica classica da Newton fino a Maxwell, dato che la teoria maxwelliana del campo elettromagnetico segna il passaggio a un’altra storia, diversa dal riduzionismo meccanico del newtoniano “orologiaio cieco”.
Diversa perché, già con l’elettromagnetismo, la materia rivela movimenti interni mai osservati prima e per di più la scoperta delle onde elettromagnetiche annuncia nuove possibilità tecnologico-applicative, aumentate poi in maniera esponenziale dall’elettricità e dall’elettronica. Inoltre, con la fisica quantistica, le particelle non sono più oggetti-cose (come nella fisica classica). Anzi, esse non esistono secondo il nostro precedente modo di immaginarle; possono, invece, essere descritte solo come onde di probabilità per cercare di predire gli stati possibili in cui una particella potrebbe venir rilevata, ma lo stato che si manifesterà non è predicibile. Insomma, non sappiamo quasi nulla di una particella quando non è misurata, tuttavia, pur se misurata come onda di probabilità, l’onda ci dà solo la probabilità (appunto) di rilevare la particella in ogni punto dello schermo, senza dirci però dove essa si manifesterà.
In breve, non sappiamo che cosa sia una particella. E dato che ognuna si presenta sia come corpuscolo sia come onda, ciascuna rimane in contatto con l’altra a prescindere dalla distanza. Di qui il loro essere congiunte per entanglement quasi che lo spazio non ci fosse. Nessuna è separata dall’altra entro l’ordine a-spaziale e a-temporale di un olomovimento il cui modello matematico implica un insieme di variabili talmente nascoste che la materialità delle cose sembra dissolversi in equazioni. Sicché, non siamo in grado di percepirne l’ordine implicito. Conosciamo invece solo l’ordine esplicitato: cioè le interpretazioni che di esso diamo, attraverso lo studio delle onde di interferenza che compongono l’intero universo. 

I computer, i robot e l’intelligenza artificiale sono tra i sistemi più complessi che si possano immaginare e costruire. Si tratta, però, di sistemi concettualmente riduzionistici e deterministici – ovvero da fisica classica – pure se e quando sono pensati secondo criteri quantistici e sotto l’influsso del principio di indeterminazione. Perché, pur essendo macchine universali in quanto possono eseguire un numero pressoché infinito di differenti funzioni, il risultato prodigioso a cui pervengono è dovuto alla separazione del meccanismo fisico – l’hardware – dalla parte non fisica: il software (o collezione di programmi) che ne specifica la funzione.
Un programma infatti è una sequenza di comandi ideati da una mente umana e scritti in linguaggio booleano (o algebra di Boole) che può essere eseguito dalla macchina a una velocità prossima a quella della luce. Detto linguaggio usa un alfabeto di sole due “lettere”: 0 e 1, dunque binario e costituito da bit. Pertanto, ogni parola è una sequenza composta da un numero finito di bit, ossia la quantità più piccola possibile, per fare una sola distinzione: 0 o 1: questo o quello, esiste o non esiste, vero o falso… secondo un linguaggio estremamente efficace dato che l’hardware deve riconoscere i due unici stadi possibili: o l’uno o l’altro, in base a una logica semplice e priva di significato, come dire, una sintassi senza semantica e sul modello del teorema di Shannon.
Così, il sapere della macchina coincide con la semplice informazione fatta di simboli, che non rimandano, però, alla profondità della dimensione simbolica ma si fermano alla superficie dei segni che, in quanto tali, indicano solo ciò che è univoco, al pari di un cartello stradale, asetticamente impersonale e oggettivo; al pari della parte (o dell’aspetto) operazionale della nostra mente che può sembrare quanto di più meccanico e algoritmico vi sia.
Ben altra cosa è la coscienza: il sapere di sapere (o di non sapere) e il sentire la potenza dell’inconscio personale e collettivo. Una potenza che in noi agisce con la prorompente ambiguità dei simboli nel mentre, come organismi viventi, continuiamo a trasformarci – a differenza di un computer o un robot. Una macchina, infatti, una volta costruita, rimane essenzialmente la stessa. E perciò, attribuire coscienza o comprensione o libertà decisionale ai sistemi di Intelligenza Artificiale è fuorviante e pericoloso.