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LA SIGNORINA VIOLA

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SIGNORINA VIOLA 1Nei vicoli e nelle piazzette di un paese, una vita vissuta nella periferia dell’esistenza, combattendo contro la solitudine e l’indifferenza e che – giunta al termine – convoca la nostra fantasia, la nostra umanità, la fede per “vederla” in una nobilissima dimensione di amore e rispetto.

 

FIRMA IANNUCCILa chiamavano "signorina Viola" e apparteneva alle periferie dell'esistenza, come Papa Francesco definisce gli emarginati, ma, per la nostra innocente perfidia pappagallesca, mista a timore, se non a paura, di ragazzini di un periferico rione di Casalbordino, era semplicemente e sbrigativamente "la zitella".
Giocavamo ancora per strada, noi ragazzini, nei lunghi, mediterranei pomeriggi estivi, ma non sulla strada principale, li non si poteva perché passavano le macchine, noi giocavamo con i nostri tricicli, le nostre bambole e palloni nei cortiletti di dietro, nei due vicoli paralleli in discesa che solcavano il rione, come due rughe di una fronte, nonché nella piazzetta che lì collegava, mentre le nonne chiacchieravano sedute al fresco di un arbusto cresciuto fra le case, con figli e parenti, magari lontani tornati per le vacanze, o, dopo Ferragosto, mentre la salsa di pomodoro riempiva di sé le bottiglie immacolate e l'aria di profumo di odoroso basilico. Era appunto durante quei giochi che avevamo fatto la conoscenza di quella nostra vicina, imparando a chiamarla "zitella", non certo di nostra iniziativa, ma perché alla nostra innocente curiosità su chi fosse e come si chiamasse, quelle dolci nonnine si trasformavano in spietate comari, degne delle commedie scespiriane e goldoniane, che, con un sorrisetto beffardo o compassionevole, a seconda dei punti di vista, la  apostrofavano così, credendo forse di farci divertire o, più probabilmente, di farci impietosire.
In effetti, la signorina Viola possedeva molte delle caratteristiche ritenute tipiche della categoria: la mezza età, forse già passata da un pezzo, l'abbigliamento, fatto di scarpe basse, gonne e camicette di antica foggia, il volto, piuttosto irsuto e punteggiato di peli incarniti, e gli spessi occhiali da vista, ma ciò che mi aveva sempre colpito era lo sguardo che si nascondeva dietro quegli occhiali, uno  sguardo da cui traspariva una certa signorilità ottocentesca, impotentemente indignata per la colpevole indifferenza dell'epoca in cui si trovava a vivere.
Abitava vicino a un vecchio zio, zi’ Ettorine, con la gola sempre coperta da un fazzoletto, forse per una precedente tracheotomia, che si accompagnava a una bicicletta altrettanto vecchia, in una vetusta casa dall'intonaco quasi scrostato che usciva sul vicolo principale del rione, mentre un'altra vegliarda zia occupava l'ala opposta della casa, che dava sul vicolo parallelo. La sua vita si faceva osservare prevalentemente dalla sua stanza da letto, da una delle finestre che affacciava sul largo laterale, quasi di fronte a quella della nostra taverna.

 Non sono mai entrata in quella stanza su cui dava quella finestra, ma talvolta cercavo con la fantasia di scavalcarla, per immaginare cosa contenesse, e me ne ero fatta un'idea, come le ricostruzioni in realtà virtuale al computer che si effettuano oggi delle antiche città o dei templi greci e romani, ma con qualcosa in più, un elemento olfattivo, che sa di Proust e dei suoi dolcetti: un lieve odore erborinato che pervadeva l'ambiente (lo so, ragazzina impertinente, era puzza di muffa, ma così è più intrigante, e più non dimandare), la carta da parati alle pareti, i mobili di arte povera color noce, forse impallinati dai tarli, la macchina da cucire primonovecentesca, sistemata vicino a quella finestra per illuminare il rammendo.
 Veniva spesso a casa nostra la signorina Viola, entrando da una porticina di servizio della nostra taverna che dava sul largo laterale, anche in orari meno opportuni, come subito prima di cena o nelle tarde serate invernali, talvolta per un prestito culinario, talaltra per una consulenza interpretativa sulle lettere in burocratese che riceveva, ma soprattutto per... compagnia, per abbattere quel mostro della solitudine contro cui combatteva inutilmente eppure tenacemente, quasi come, e forse più, di Don Chisciotte contro i mulini a vento.
Alle mie occhiate insofferenti e inconsapevoli, quella santa donna della mamma rispondeva con un'occhiata perentoria, ma conciliante e invitante alla umana comprensione, successivamente decifrata con parole più o meno come queste: «Bisogna aver pazienza: vive praticamente da sola ed ha soltanto noi che possiamo darle una mano».
Nelle sue conversazioni ricordava molto spesso la propria giovinezza la signorina Viola, di quando si recava nella sua casa di campagna con la bicotte, il carretto usato dai nostri contadini per ritornare in paese nei giorni di festa e trasportarvi persone e merci da rivendere nel mercato della domenica, a lu scalone de la piazzotte de la virdure, sul gradone della piazzetta di fianco alla chiesa; di come non si fosse mai sposata, probabilmente per le pretese eccessive dei genitori che, per il nobile desiderio di volere per la figlia e la sua sicurezza economica il partito migliore, avevano fatto fuggire ogni pretendente, per non parlare poi del cosiddetto "treno dell'amore", che la povera signorina Viola non aveva certo mai visto neanche passare, né il suo, né quello delle sue amiche, impegnate com'erano, a recarsi dalle suore per imparare a ricamare, come tutte le signorine di buona famiglia.
Tali conversazioni e i nostri giochi, che intanto cambiavano, insieme alla nostra età che cresceva, riempirono la vita, peraltro abitudinaria del rione per molti anni ancora, fino a quando le mutate esigenze logistiche della nostra famiglia ci costrinsero a cambiare casa e quartiere, per trasferirci in un appartamento più vicino al centro e ad abbandonare così quel rione che pure aveva rappresentato un po' la nostra famiglia allargata, in cui avevamo trascorso anni tutto sommato felici; e di quella famiglia era entrata a far parte anche la signorina Viola, che perciò ci dispiaceva abbandonare, ora per davvero, ai suoi problemi piccoli e grandi, che le parevano mostri feroci e senza pietà, soprattutto a causa di quel mostro più spietato degli altri: la solitudine.Passarono alcuni anni dal trasferimento, durante i quali non mancammo di informarci da mio nonno, che intanto aveva occupato la nostra casa del rione, sulla sua salute e di chiamarla quando ci recavamo a fargli visita, fino a quando non apprendemmo con dolore che aveva terminato il suo esilio terreno, essendo stata ritrovata morta in casa. La signorina Viola era rimasta vittima del peggior mostro che possa infestare le strade dell'esistenza, l'indifferenza umana, che nessun cavaliere avrebbe potuto sconfiggere, tranne Quello in grado di trasformare quell'arma potentissima e letale nel miglior strumento di redistribuzione sociale, la comprensione-compassione, quel Cristo che, da raccontatore di parabole, si era immedesimato, additandocelo, nel personaggio del Buon Samaritano.
Nient'altro da aggiungere sulla signorina Viola? Per la pura e semplice ragione sicuramente si, ma la nostra fantasia, la nostra umanità più profonda che non si arrende alla morte e la nostra fede ci impongono di immaginare che il buon San Pietro, amministratore delegato di quel Cristo di cui sopra, dopo aver ascoltato la sua vera storia (non quella che si aggira tra gli uomini e le loro ipocrisie, ma quella che conosce i palpiti e gli affanni del cuore), abbia sicuramente accolto la sua anima di principessa incompresa e insoddisfatta nel suo esclusivo gruppo «Quarta dimensione», il più prestigioso del nobilissimo ambiente della nuova Gerusalemme, in cui sentirsi finalmente amata e rispettata (vi possono accedere infatti solo coloro che ne possiedono i titoli di merito, acquisiti in una vita alla rovescia rispetto al mondo), in modo che lei avrà certamente perdonato anche noi, garzoncelli scherzosi del rione, perché non conoscevamo ancora la solitudine delle periferie dell'esistenza.