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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

POPOLO MA NON TROPPO

POPOLO MA NON TROPPOPopolo ma non troppo. Il malinteso democratico, di Yves Mény, il Mulino, Bologna, pp. 214, € 15. Recensione.

La ricca, complessa, ma anche problematica costruzione delle istituzioni occidentali, e della cultura politica che le sottende, è frutto di una lunga evoluzione storica, ma anche di punti di svolta e momenti di rottura derivanti da eventi e circostanze non sempre correlati e, a volte, anche casuali, che l’autore ricorda nell’incipit del volume. Questa modalità di lettura della storia viene applicata anche al tempo presente, nel quale viene individuato un ulteriore momento di rottura epocale, determinato da un insieme di fattori che portano ad interrogarci sullo stato di salute della democrazia così come la conosciamo: la crisi del “capitalismo globalizzato” accompagnato dalla rivoluzione tecnologica e da sconvolgimenti nei campi dell’economia, della finanza, della società del suo complesso. Un insieme che ha messo in crisi il ruolo e l’incidenza dello Stato nell’economia e, al contempo, i principi che hanno sin qui regolato il funzionamento dei sistemi democratici, ad iniziare da quelli della rappresentanza, della mediazione, della delega. Non poteva che scaturirne anche la crisi delle formazioni che all’attuazione di quei principi concorrevano, in primis i partiti. Fra i meriti storicamente acquisiti da questi ultimi, vi è certamente quello di aver contribuito a far riemerge il cittadino dallo stato di sospensione nel quale l’aveva messo la Seconda Guerra Mondiale e a fargli assumere un ruolo centrale e protagonista in una fase di espansione della democrazia. Ma i fattori sopra accennati, e in modo particolare le nuove forme tecnologiche di comunicazione e di informazione, hanno destabilizzato, come già detto, tanto il ruolo dei partiti quanto il rapporto tra cittadini e istituzioni. È subentrato il senso della inessenzialità dei corpi intermedi, della mediazione, della accresciuta potenza dell’individuo, capace, con le nuove tecnologie, di essere presente in modo diretto in un vasto mondo che va ben al di là dalla cerchia che la sua rete di relazioni gli consentiva in passato. Con la possibilità di unirsi alle ondate digitali di critica alle élites, agli establishment, alle “caste”. Una “liberazione” delle critiche e della protesta, ma anche dei risentimenti prima covati in ristretti ambiti relazionali, che non hanno messo capo ad un’idea e ad un progetto nuovi di democrazia, ma tendono a limitarsi alla passione e alle emozioni. Scivolando nell’aggressività e adottando linguaggi opposti a quelli del dibattito politico e civile tradizionali, esprimendosi con modalità offensive e violente presentate come il genuino modo di esprimersi del “popolo”.
A questo sconvolgimento del discorso pubblico, la democrazia non ha saputo ancora dare risposte nuove, mentre il populismo ne ha fatto un terreno di coltura per costruire le proprie fortune. Un populismo che è stato “assimilato” dall’estrema destra, capace di mettere al centro della propria retorica temi «abbandonati dai partiti di governo che, sia per cecità, sia per interesse elettorale e politico, si sono rifiutati di comprendere le domande dei propri elettori» (l’immigrazione costituisce un tema illuminante in questo senso) e hanno «trascurato i mutamenti sotterranei che hanno colpito le società occidentali nel loro insieme». Con un risultato per certi aspetti paradossali: «nonostante i partiti populisti siano stati per molto tempo ovunque minoritari e raramente al potere, essi hanno comunque dominato, in larga parte, il dibattito pubblico e dettato l’agenda politica».
Si impone, con tutta evidenza, dunque, una riflessione su un fenomeno spesso liquidato con insofferenza come manifestazione irrazionale destinata a sgonfiarsi più o meno con la rapidità con cui è nato. Mény ci invita a non farci illusioni al riguardo: il populismo «ha scarse possibilità di rifluire, data l’ascesa delle nuove tecnologie, dei social network, dell’ “uberizzazione” crescente dei rapporti sociali». Occorre Analizzarlo, confrontarsi con esso, elaborare nuove forme di democrazia, anche fidando nel fatto che «le democrazie sono “trasformiste” e capaci di “digerire” elementi inizialmente visti come incompatibili».
Al termine del lungo tragitto documentato, ricco di riferimenti alle vicende attuali e stimolante attraverso il quale ci ha accompagnato con questo libro, l’autore ci consegna dunque un messaggio di impegno e di speranza. Non prima, però, di averci dato due importanti avvertimenti.
Il primo: esiti possibili dell’utopia del «governo del popolo da parte del popolo» sono l’emergere «di nuove élite fuori dalla ristretta cerchia dominate o quello dell’affermazione di un leader che sia la personificazione della volontà popolare, fino a che sarà possibile identificare tale “volontà generale”». Con tutti le possibili conseguenze su cui la storia ci ha già sufficientemente edotti.
Il secondo: l’intera questione va affrontata alla luce dei problemi posti dalla “tecnocrazia globale” e della globalizzazione in generale: «La democrazia 3.0 è sì tutta da creare, inventare, immaginare, ma è certo che dovrà conciliare la dimensione nazionale con quella globale, l’individualismo e la società».
Un implicito e salutare invito ad intellettuali, politici e cittadini a non trastullarsi nel gioco mediatico dei cinguettii e dei post istantanei, ma a prendere coscienza che salvare la democrazia ed inventarne una nuova non è una giaculatoria da riproporre nelle circostanze ufficiali, bensì una costruzione quotidiana che richiede studio, impegno, mente libera dai pregiudizi.

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