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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

1945

«Il 12 agosto 1945, la guerra mondiale può dirsi ormai terminata. Ha lasciato dietro di sé rovine e orrori indicibili, ma ora, per il protagonista del film, sembra dischiudersi un futuro tranquillo». Ma...

di NICOLA RANIERI

NICOLARANIERI1Già il titolo indica un preciso anno. Nella prima sequenza vengono detti pure il giorno e il mese, 12 agosto: una data di poco successiva a quelle delle atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki. Ne parla il giornale radio del mattino, mentre István Szentes si rade la barba con cura.
Siamo in Ungheria. Dove il Secondo conflitto mondiale è cessato da tre mesi, e con esso anche la guerra civile: tra coloro che per sconfiggere i tedeschi appoggiavano il governo provvisorio e i filonazisti del disciolto Partito delle Croci Frecciate.
Fondato nel 1935 da Szálasi e ricostituito nel 1939, già nel nome si richiamava al simbolo delle antiche tribù magiare. Al pari del nazionalsocialismo – di cui imitava la svastica – era un partito sedicente anticapitalista, ferocemente anticomunista e antisemita. Propugnava la superiorità razziale e l’ordine basato sul potere del più forte. Szálasi difatti nel 1944, con l’appoggio della Germania hitleriana, era diventato capo dello stato e di un governo dispotico. Che però nel gennaio del 1945 era caduto, per l’arrivo dell’esercito sovietico a Budapest. I membri irriducibili del partito avevano tuttavia continuato a collaborare con i tedeschi contro il governo provvisorio.
Durante la guerra civile imperversarono eccidi efferati, razzie d’ogni genere, cacce spietate a politici e sindacalisti; agli ebrei soprattutto, che venivano depredati perfino delle case, denunciati e spediti poi dai tedeschi nei campi di sterminio.

Il 12 agosto 1945, la guerra mondiale può dirsi ormai terminata. Ha lasciato dietro di sé rovine e orrori indicibili, ma ora, per il protagonista del film, sembra dischiudersi un futuro tranquillo. Infatti, nonostante la occhiuta presenza dei liberatori/invasori russi (ai quali cerca di fare buon viso per ingraziarseli), István Szentes si sente perfino baldanzoso in un villaggio saldamente nelle sue mani, essendo egli vicario, proprietario terriero, bottegaio e pubblico ufficiale spregiudicato nell’esercizio di uno strapotere banditesco sugli abitanti, attraverso l’intimidazione dei braccianti e il fascistoide servilismo degli scherani che gli fanno da guardie del corpo; non molto diversamente dal servilismo opportunistico di qualche sua amante a cui, in qualità di notaio, ha legalizzato la casa e gli averi sottratti agli ebrei mandati a morire nei campi di concentramento hitleriani.
Insomma, il 12 agosto è per lui una giornata speciale: il figlio Árpád si sposa con la bella Kisrózsi e tutto il villaggio si appresta a partecipare alla grande tavolata serale, anche per riverire il potente e temutissimo padrone incontrastato.
Sennonché alla stazione ferroviaria, alle 11 in punto, dal treno sbuffante nuvole di nero fumo scendono due misteriosi quanto inconfondibili ebrei ortodossi (un padre e un figlio, forse) con due casse di legno che contengono profumi e cosmetici – secondo quanto dichiarano al capostazione. Il quale, al carrettiere che ha appena caricato questi strani bagagli sul carro trainato da un cavallo e seguito a piedi dai due ebrei, ordina di tenere un’andatura lentissima nel tragitto verso il villaggio. Cosicché lui possa avere il tempo necessario per correre veloce in bicicletta dal notaio/vicario e avvisarlo del sopraggiungere dei due forestieri.
Quando trafelato arriva in paese, gli dà l’infausta notizia. Che per István Szentes – seduto al ristorante per un piacevole spuntino – ha la potenza sinistra di un fulmine: il passato ritorna minaccioso e il futuro non è meno fosco. Come se non bastasse, alla radio si parla di riforma agraria, nazionalizzazione delle fabbriche… sotto la guida del partito comunista. Intanto la sposa (prima di indossare l’abito bianco) va a far l’amore con Jancsi, il suo amante apertamente filosovietico, amico dei braccianti, nemico giurato del vicario e dei suoi scherani provenienti dalle disciolte Croci Frecciate. Mentre Árpád, non solo trova ripugnante il consiglio paterno di “domare” la promessa sposa, ma rifiuta anche il suo negozio e vuole fuggire il più lontano possibile da lui. Come del resto farebbe sua madre, se potesse, visto che per il marito è soltanto una pazza. Lei lo detesta. Lo ritiene un delinquente nonché un assassino. E sa pure che la bella Kisrózsi intende sposare suo figlio solo per il negozio.
D’altronde, man mano che trapela la notizia dell’imminente arrivo dei forestieri e cresce la concitazione generale, in ciascuno si fa strada una ben diversa consapevolezza. Addirittura Adras Kustár – il marito della principale beneficiaria degli averi sottratti agli ebrei – si ubriaca per disperazione e vorrebbe confessare i crimini commessi. Il prete però, da losco figuro qual è, gli dà solo dell’ubriacone inaffidabile che non sa quel che dice.

Per quasi tutto il film – ispirato fra l’altro ai western di Sergio Leone – il montaggio parallelo alterna i comportamenti dei diversi personaggi che, all’inizio, sembrano quasi senza rapporti fra loro. Invece si tratta di un modo di caratterizzarli mentre entrano in scena e di creare al contempo la suspense: l’attesa, nello spettatore, di conoscere il motivo di tanta inquietudine fra questi compaesani. I quali iniziano ad avere il sospetto o la quasi certezza che i forestieri in arrivo siano i parenti della famiglia dei Pollack, venuti a vendicare le nefandezze e i torti subiti. Perciò forse, nelle misteriose casse, hanno le armi.
Sicché, mentre il previsto matrimonio sembra sfumare e ai preparativi della festa subentrano gli incubi del passato che ritorna, in molti interviene un barlume di coscienza dei misfatti compiuti. Certo, non da ciascuno in egual misura. Ma ognuno vi risulta coinvolto comunque, magari anche solo per aver taciuto. Così tutti, inquieti, scrutano come guardoni attraverso buie porte o da dietro le finestre per scorgere con terrore il sopraggiungere dei due ebrei, che seguono il carro quali nere figure ieratiche. E, senza far nulla, scatenano (ancor prima d’esser viste) rimorsi e paure in chi guarda.
Il loro lento seguire l’andatura di cavallo e carro, il cadenzato rumore dell’incedere solenne di zoccoli e ruote hanno la inesorabilità del destino: che tremendo incombe sui colpevoli. La musica – non melodrammatica bensì asciutta nei toni e nel timbro – sottolinea cotanta inesorabilità. La rafforza a tal punto che gli abitanti del villaggio ne sono sconvolti, prima ancora che la vendetta si abbatta su di loro. Non a caso il montaggio asincrono disgiunge a tratti la colonna sonora da quella visiva. Infatti il vicario (e non solo lui) ode l’inesorabile incedere del cavallo ben prima di vederlo comparire, poiché un siffatto avvicinarsi minaccioso ha la ineluttabilità della nemesi storica. La quale, mentre è in procinto di compiersi per mano di chi proviene dall’esterno, agisce simbolicamente anche all’interno di chi solo ora s’avvede di aver arrecato danno agli altri. Oppure, senza pentimento alcuno – come la perfida moglie di Kustár –, cerca soltanto di imboscare i beni rubati, per paura di doverli restituire. Comunque sia, la nemesi personifica la giustizia riparatrice: il sopraggiungere della punizione quale destino che – per compensazione – riporta l’equilibrio, distribuendo gioia o dolore in giusta misura, a seconda che gli umani comportamenti siano virtuosi o delittuosi.
Insomma, gli abitanti del villaggio istintivamente scorgono nei due sconosciuti il volto del destino che li ritrova. Ne sono ancor più convinti allorché li vedono entrare nel cimitero e (come avviene nei western prima del duello finale) chiedere al carrettiere di scavare la fossa, evidentemente per gettarci dentro coloro che intendono ammazzare.
Almeno così sembra. Perciò tutti si schierano davanti al cancello con randelli e forconi, per aggredire e non essere uccisi.
Invece, colpo di scena! Dalle misteriose casse i due ebrei tirano fuori indumenti, giocattoli dei bambini morti nei campi di sterminio. Religiosamente li avvolgono in candidi panni e con cura amorevole li depongono nella fossa, ricoprendoli con la nuda terra. Terminata la sepoltura dei ricordi, entrambi raccolgono una piccola zolla e se la buttano dietro le spalle. Dopo l’abluzione rituale delle mani, salutano il vicario. Che, rassicurato, ordina ai concittadini di farli passare. Così, se ne vanno in pace come sono venuti. Lasciando però, dietro di loro, un villaggio devastato come dopo una battaglia: la moglie di Kustár trova il marito impiccato; Árpád se n’è andato per sempre; Kisrózsi – vestita da sposa e vagando senza meta – viene molestata dai soldati russi su una jeep e scopre che Jancsi sta con un’altra, quindi, come una pazza furiosa, dà fuoco al negozio di István Szentes; il quale va in chiesa per invocare l’aiuto dei fedeli radunati attorno al prete, affinché accorrano a spegnere l’incendio; intanto sua moglie guarda dalla finestra il villaggio in fiamme.
I due ebrei ripercorrono a piedi la medesima strada tra i campi sotto un cielo nerissimo e carico di pioggia, che subito inizia a cadere copiosa, dilavante. Purificatrice. Come la punizione delle colpe, che segna il ritorno all’equilibrio.
Giunti alla stazione, alle 15 in punto ripartono in senso inverso rispetto all’arrivo. A bordo c’è anche Árpád. Seduti nello stesso scompartimento se ne vanno chissà dove, con un treno dal quale si levano enormi volute di nero fumo verso il cielo, mentre riprende la stessa musica yiddish che accompagna la sepoltura dei ricordi. Ѐ il pianto per i morti o lo struggimento degli erranti. I quali – errando – conoscono le umane miserie lungo il faticoso cammino interminabile di pace e giustizia che non arrivano mai.

Il film in novantuno minuti – e secondo le unità teatrali di tempo, luogo e azione – racconta quattro ore di un preciso giorno d’estate di un anno importante, in cui gli abitanti di uno sperduto villaggio si autopuniscono. Inconsciamente, finiscono per portare a termine da se medesimi la vendetta che i due ebrei (secondo la legge di azione e reazione) dovrebbero compiere. Infatti al solo averne notizia o vederli passare, sembra che le due nere figure incarnino proprio ciò che gli abitanti si aspettano: la inesorabilità della punizione delle loro malefatte, che li conduce ad autodistruggersi. Perché, di tutto quanto è frutto di rapina e sopraffazione restano solo le macerie e le fiamme che le divorano. Così questa piccola vicenda ungherese, entro un anno memorabile, assume le sembianze del continuo ritornare del rimosso che mai si cancella e sempre sta tra passato e futuro della storia d’Europa, e non solo di essa.
In 1945 (2017) Ferenc Tӧrӧk non mostra campi di concentramento, deportazioni, divise naziste. Trasponendo cinematograficamente un racconto di Gábor T. Szántó, si ispira soprattutto al film Il nastro bianco dell’austriaco Michael Haneke, ambientato in Germania nel 1914.
Sia l’una sia l’altra storia hanno per luogo un piccolo villaggio tra i campi, che è una sorta di sineddoche (di parte per il tutto) ovvero il concentrato di ogni male possibile. Ma, mentre la prima narra le conseguenze di quanto già avvenuto, la ricerca del capro espiatorio e la nemesi che punisce i colpevoli, la seconda invece mostra i germi di ciò che con virulenza divamperà nei due conflitti mondiali provocati soprattutto dai tedeschi, i cui mali sono da ricercare anche nel loro astratto rigorismo morale nonché nelle ferree leggi del comando e dell’obbedienza fino alla sottomissione. Haneke infatti scava proprio nel terreno etico-politico e con un piglio quasi ontologico. A differenza dell’ungherese Ferenc Tӧrӧk, che preferisce spostare l’accento sui comportamenti meschini e sui reciproci rancori, ma senza scadere nella dispersione naturalistica. Anzi, proprio al fine della massima essenzializzazione, si ispira a Il nastro bianco di Haneke e a Ida di Pavel Pawlikowski. Sceglie perciò di girare 1945 in bianco e nero. Con una fotografia, un tipo di luce e uno stile tali da conferire alla storia narrata il carattere della universalità.     

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